Foto di Máté Bartha, per gentile concessione di TOBE Gallery, Budapest, Ungheria. Per altre foto della serie Kontakt: barthamate.com

L'Ungheria della gioventù delle armi

Micol Flammini

Máté Bartha ci racconta la rabbia e la timidezza, il rigore e la soddisfazione, l’adolescenza, il paese dei ragazzi nei campi militari ritratti nelle sue fotografie

Ci sono i San Sebastiano dai volti tinti di verde, le Giovanna d’Arco che imbracciano fucili, le estasi di stanchezza e frustrazioni, escursioni che sembrano crocifissioni, le foto della serie Kontakt entrano nel sacro, tableau vivant in mimetica, immobili ma vibranti che raccontano la storia di un paese, l’Ungheria, in un momento storico preciso, l’èra di Viktor Orbán. A ritrarre questi volti è stato Máté Bartha, trentenne, prima studente di architettura, poi fotografo. “Dovevo scegliere il lavoro finale da presentare per la tesi, pensavo a un documentario. In quel periodo si parlava molto di disciplina marziale, il governo ungherese voleva iniziare un programma di educazione militare da introdurre nelle scuole pubbliche – dice al Foglio Máté, che risponde al telefono dalla sua Budapest, città in cui è nato – Poi mi sono accorto che dalla politica volevo tenermi lontano, ma l’argomento mi interessava molto”. Queste realtà, campi militari estivi, nell’Ungheria orbaniana, esistono già da alcuni anni, si arriva bambini, a dieci anni, e si esce da ragazzi, diciotto. Si impara a maneggiare armi, non vere ma verosimili, a correre, a sopravvivere nella natura, a costruire una tenda, a vestire l’uniforme, a vivere lontano da casa, a sentirsi più grandi e patrioti. In Ungheria c’è molta richiesta per questi campi militari estivi, l’offerta è ampia, fa parte della costruzione dell’uomo nuovo ungherese, probabilmente di fede orbaniana, sicuramente animato da sentimenti patriottici. “Ho fatto richiesta in diversi campi ma in molti erano riluttanti all’idea di avere un fotografo, un artista da Budapest, che seguiva le attività dei ragazzi, sapevo che accettarmi non sarebbe stato semplice. Poi ho trovato questa ong, la Honvédsuli, che già sul sito chiariva che il suo impegno era quello di insegnare patriottismo e disciplina”. A capo della ong ci sono due soldati, uno di loro è un ex soldato della legione straniera francese, “mi ha detto di presentarmi all’ora di cena così avrei potuto cenare con i ragazzi, era un’opportunità per iniziare a conoscersi. Mi hanno dato una tenda tutta per me, era importante che i ragazzi non mi percepissero come uno di loro”. Oltre all’ex soldato, leader della ong, al campo militare lavora anche una donna, che assiste ragazzi e famiglie, d’altronde, altro obiettivo di questi campi, è dare ai ragazzi disciplina e valori, abilità che le famiglie ungheresi credono di non essere più in grado di offrire, “anche per questo mandano i ragazzi in questi campi”. “Sono arrivato preparato, ma pieno di preconcetti sulle armi, sulla guerra, mi definisco un pacifista e con fatica ho iniziato a capire che i lati positivi di un’esperienza del genere non erano pochi”. Máté è rimasto nel campo, in una delle zone rurali dell’Ungheria, per diciotto mesi, per realizzare la serie Kontakt con la quale ha vinto il premio Discovery al festival di fotografia di Arles e il Capa Grand Prize. “Ho scelto il nome Kontakt perché è una parola che rappresenta questa esperienza su tre livelli. E’ un termine militare, ma indica anche il contatto fisico che i bambini sperimentano, e infine il contatto dei bambini con la società, per molti di loro questa è la prima esperienza, entrano così in contatto per la prima volta con amicizie e inimicizie, soddisfazioni e frustrazioni”.

 


Bartha è passato dall’architettura alla fotografia. Con Kontakt ha vinto il premio Discovery al festival di Arles e il Capa Grand Prize. “Il nazionalismo è mettere noi contro loro. Invece il patriottismo nel campo militare ha a che fare con l’appartenenza, non con l’odio”


 

I bambini si svegliano all’alba, fanno colazione, poi iniziano gli esercizi, “non è sempre stato facile, a volte sentire gli istruttori che urlavano: ‘forza, correte più forte, più veloci’, che li incitavano come fossero veri soldati, non era semplice. I bambini erano spesso stremati, rossi in viso, ma continuavano a correre, cercavano in tutti i modi di migliorarsi”. Nel campo le giornate seguono un ritmo serratissimo, il lavoro è duro, spesso mette alla prova i ragazzi. “Ripeto, sono un pacifista assolutamente contrario all’uso delle armi. Ma quando sono arrivato lì, ho capito che imparare a difendersi fa parte dello sviluppo di una persona, ho visto bambini crescere, amicizie nascere, qualche amore”. Il campo della ong Honvédsuli, che in ungherese vuol dire scuola militare, è uno dei tanti, ognuno ha la sua vocazione, i suoi scopi, i suoi obiettivi, ma tutti hanno a che fare con la difesa e il rafforzamento del sentimento nazionale. “L’Ungheria ha fatto parte di molti imperi, ha perso parti del suo territorio, ha perso guerre e subìto invasioni, che ci sia il desiderio di rafforzare il senso di appartenenza non è necessariamente sbagliato”, dice Máté, che però ci tiene a segnare sottolineare la grande differenza che divide il patriottismo dal nazionalismo. “Il nazionalismo è mettere noi contro gli altri, tra nazionalisti non si può discutere, nel nazionalismo c’è sempre un senso di antagonismo. Il patriottismo invece è un sentimento di orgoglio, un patriota è orgoglioso di appartenere a un paese e non ha problemi, contrariamente al nazionalista, a relazionarsi con altri patrioti di nazioni diverse dalla sua”. In Ungheria in questi anni il noi contro loro è stato la base delle campagne elettorali di Viktor Orbán, primo ministro e leader del partito Fidesz. Orbán ha iniziato la sua carriera politica alla fine del comunismo, è stato tra i politici più attivi nella ricostruzione democratica del suo paese, ai suoi albori si definiva un europeista, un liberale per poi cambiare idea negli ultimi anni. Governa l’Ungheria senza interruzioni dal 2010 e il nazionalismo è diventato il carattere dominante della sua politica. “Anche il governo ha i suoi campi militari, ma sono diversi, più concentrati sulla politica ungherese e meno sulla natura. Nella mia esperienza ai bambini veniva insegnato più a stare nella natura, a trovare il cibo, a orientarsi, ad accendere un falò. La Honvédsuli segue le regole delle forze armate britanniche, i ragazzi seguono anche lezioni di storia militare, ma il nazionalismo non c’entra nulla. Anzi, il campo è frequentato anche da bambini slovacchi e romeni, Molti di loro erano anche di diverse religioni, c’erano cristiani ed ebrei e stabilire il cameratismo nella diversità è uno degli obiettivi del campo che – Máté sorride – speriamo non mi sentano, ma in questo senso potrebbe essere addirittura definito liberale. Dirò di più, sono anche femministi, ci sono più ufficiali donna che uomo”. Dentro al campo c’è possibilità di salire di grado, i bambini di dieci anni arrivano e vengono allenati da ragazzi più grandi che sono entrati nel campo come loro, “ho visto bambini arrivare piangendo, non sapevano fare nulla, nemmeno vestirsi, altri li ho visti piangere magari mentre la notte dovevano restare svegli a sorvegliare che non si spegnesse il fuoco, ma più i giorni passavano più accumulavano esperienze importanti, erano motivati, contenti”.

 


Foto di Máté Bartha, per gentile concessione di  TOBE Gallery, Budapest, Ungheria. Per altre foto della serie Kontakt: barthamate.com


 

Le famiglie mandano i figli in questi campi perché vogliono che crescano con certi valori, ma spesso anche da parte dei bambini c’è entusiasmo, la voglia di fare un’esperienza da adulti, “molti vedono la guerra come un gioco, ovviamente il pensiero nazionalista e di ultra destra in Ungheria è frequente, tanti ragazzi vengono da questi ambienti, uno di loro ad esempio era arrivato al campo con un svastiche, un libro sulla vita di Hitler, quando il leader lo ha scoperto ha cercato di fargli capire il significato di quei simboli, il dolore che l’ideologia nazista aveva portato al nostro paese. Nel campo si parla molto, discorsi sulla guerra, anche sul valore della vita umana, se bene gestite queste discussioni possono essere importanti anche per il futuro del paese”.

 

Nelle foto il paesaggio è muto, freddo, domina il verde scuro delle zone rurali ungheresi che si confonde con il verde delle tenute militari, c’è la terra, il grigio delle armi. Su questo palcoscenico si muovono le figure fotografate da Máté Bartha, bambini, ragazzi, bambine, ragazze. Tutti stravolti, cambiati dall’esperienza nel campo militare. “Mutavano un po’ ogni giorno anche nei confronti della macchina fotografica. All’inizio erano diffidenti e incuriositi, quando si accorgevano che scattavo cercavano di mettersi in posa, di sistemarsi i capelli o l’uniforme, poi escursione dopo escursione, la macchina fotografica non la notavano più”. In una delle foto c’è il volto di una bambina, aggressiva, arrabbiata, determinata, con la pistola in mano, “era la più timida del gruppo, spesso si allontanava per raccogliere fiori, non stava mai con gli altri. Un giorno le ho chiesto se potevo farle una foto, lei mi ha risposto: ‘Sì, ma ho bisogno della mia pistola’. Così, improvvisamente si è trasformata”. Ci spiega Máté che spesso i fotografi di guerra durante i conflitti servivano proprio a questo, a tirare fuori il coraggio, la forza, dai soldati, “era l’obiettivo che spesso creava identità nel plotone, spesso davanti a lui erano disposti ad azioni più pericolose, eroiche”.

 

Prima di iniziare questo lavoro, Máté Bartha aveva pensato a realizzare un documentario, ma poi si è reso conto che tutto, le urla, le espressioni, i giochi, il freddo delle armi, catturati in immagini in movimento avrebbero perso qualcosa “sicuramente il loro esotismo”. I piccoli cambiamenti che avvenivano dentro e fuori i bambini, le domande che le foto di Bartha pongono, sull’etica, la forza, la morale, di un’esperienza del genere, si prestavano più alla fotografia che alla cinematografia. “Alla fine ho realizzato anche un documentario, ma su un unico personaggio: Vivien. Sapevo che queste immagini sarebbero state controverse, si tratta sempre di bambini con pistole in mano e ho avvertito sia i ragazzi sia gli organizzatori della ong che la reazione non sarebbe stata semplice”. Infatti rimaniamo lì, incollati e spaventati dalle foto, dai volti infantili con le pistole in mano addestrati a sparare e quindi potenzialmente a uccidere, alle espressioni affannate, ai corpi non ancora cresciuti intrappolati in uniformi, che sembrano crescere a ogni scatto che cattura i sentimenti, ma anche il rigore, la disciplina e la soddisfazione, la rabbia e la timidezza, l’adolescenza in un’Ungheria che si percepisce sullo sfondo piena della sua politica nazionalista e aggressiva. “Sono tornato a casa, dopo i diciotto mesi trascorsi lì, cambiato – dice Máté – Non volevo per forza rappresentare i ragazzi ungheresi del 2018 e infatti quando ho riguardato gli scatti mi sono accorto che i loro volti mi ricordavano altro: dei quadri”. I San Sebastiano, le Giovanne d’Arco, le estasi.

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