Acquarello di Casimiro Piccolo (per gentile concessione della Fondazione Piccolo)

Casimiro Piccolo e il mito dell'eternità. Vita e visioni dell'uomo che voleva essere un fantasma

Nadia Terranova

Nobile come il fratello Lucio, grande poeta, e cugino di Tomasi di Lampedusa, viveva con gli spiriti dei vivi e dei morti. E li dipingeva pure, ma senza definirsi un artista. Che volete che fosse la gloria per un siciliano nato per contemplare la propria immortalità?

Acquerellista, fotografo, esoterista, ma anche con queste tre parole avremmo scoperto appena un centesimo della sua biografia

I siciliani non si rapportano al tempo, si rapportano all’eternità. Se non si capisce questo, allora tutto ciò che faranno sembrerà arrivare in ritardo, sembrerà lentezza, sembrerà svogliatezza. Ma cosa sono il ritardo, la lentezza e la svogliatezza se il parametro è l’eternità? Uno che di eternità se ne intendeva era il barone Casimiro Piccolo di Calanovella, cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, fratello di Lucio (poeta) e di Agata Giovanna (botanica), figlio di Teresa Mastrogiovanni Tasca Filangieri di Cutò e di Giuseppe Piccolo; e, anche raccontandolo così, abbiamo scoperto appena un centesimo del suo albero genealogico.

 

Ci sono sempre una ballerina, una cantante, un’attrice a mettersi di traverso nelle nobili dinastie siciliane

Casimiro era nato a Palermo sul finire di un maggio che stava per chiudere l’Ottocento e, se proprio bisogna restringere le definizioni a una paginetta enciclopedica da consultare di prescia (non tutti, e soprattutto non molti tra i lettori di oggi sanno rapportarsi con l’eternità), dobbiamo tirare in ballo almeno tre parole: acquerellista, fotografo, esoterista, e anche così avremmo scoperto appena un centesimo della sua biografia. Per sapere chi era Casimiro Piccolo serve un tempo non quantificabile: la sua non è stata una vita in estensione orizzontale (visse settantasei anni, cosa sono in confronto a un’esistenza perpetua?) bensì in profondità verticale, con le radici fin sotto le fondamenta di quella Villa Piccolo sulle colline di Capo d’Orlando ancora oggi meta di chi, dietro l’abbaglio della luminosità e del sole, voglia e possa riconoscere la più autentica anima siciliana, quella umbratile, misteriosa e gotica.

 

I quattro Piccolo si spostano pochissimo e se lo fanno si portano dietro, oltre ai servitori e ai bauli, un altare portatile per dire messa

Tutto comincia quando Teresa viene tradita dal marito, che ha fatto la scemenza di innamorarsi di una ballerina ed è fuggito a Sanremo con lei – ci sono sempre una ballerina, una cantante, un’attrice a mettersi di traverso nelle nobili dinastie siciliane; c’è sempre un lembo di continente da raggiungere per poter consumare in un albergo, vicino a un teatro, quello che nelle stanze coniugali si è stanchi di consumare. Per quanto mi sforzi, non riesco a immaginare un maschio più fesso di uno che fa innervosire la baronessa: basta vederla nelle foto di bambina, con lo sguardo dritto e secco da tiranna, per capire che soltanto un uomo piccolo di nome e di fatto avrebbe potuto commettere la leggerezza di offenderne l’onore. Quando Giuseppe si innamora e rompe la consuetudine di risarcire le amanti riempendole di soldi e dando loro rispettabili sistemazioni, e poi si pente e supplica “Teresa santa e cara” di riaccoglierlo dentro casa, lei gli risponde di starsene dove sta con la sua “femminaccia”. Scagliato l’anatema sul fedifrago, interrompe le comunicazioni (non riprenderanno neanche dopo la morte di lui, e pazienza per la sepoltura), mette in carrozza i tre figli già adulti, lascia Palermo e decide che da quel momento vivranno tutti e quattro in un isolamento pazzo e pazzesco nella Villa magica delle loro estati. Quella periferia diventerà il centro di tutto. E Teresa, brava madre, educa la prole a non ripetere i suoi errori: qual è la macchia più turpe per un essere umano? Il matrimonio. Anzi, ce n’è un’altra persino peggiore: la riproduzione. La famiglia Piccolo abita l’eternità, non ha bisogno di lasciare tracce materiali del proprio passaggio sulla terra (ci proverà Lucio, dopo la morte di Teresa, con un contratto studiato a tavolino preso dal panico di avere un erede: ma questa è un’altra storia). Non c’è bisogno di aggiungere nuove creature a una villa già piena di fantasmi – i servitori, i cani, i gatti, gli antichi abitanti di quando la collina era un insediamento romano (tra le apparizioni, ancora oggi figura il fantasma di qualche centurione). In Villa c’è posto per tutti, i vivi e i morti; l’importante è che a governare siano loro, autarchici e spettrali: tre figli scapoli e bizzarri e una terribile mamàn, liberi, una volta e per sempre, di vivere come credono, anche dopo morti.

 

“I Piccolo conversavano alla Rabelais o alla Pulci, fanfaluche si susseguivano a fanfaluche”, ricorda Gioacchino Lanza Tomasi

I quattro Piccolo si spostano pochissimo e se lo fanno si portano dietro, oltre ai servitori e ai bauli, un altare portatile per dire messa (paganesimo, cristianesimo ed esoterismo: per uno studio sul sincretismo, Villa Piccolo è l’ideale). Quando sono a casa, cioè quasi sempre, nessuno suona il fortepiano in salotto, perché una volta vi si è seduto Wagner in persona, e chi può essere degno di sfiorarne i tasti dopo di lui? Creano un cimitero di animali domestici nel giardino e, ogni volta che ne muore uno, un corteo funebre lo accompagna dal portone alla tomba: un marito fedifrago non merita la cerimonia dell’addio, un cane sì. Di tanto in tanto a Villa Piccolo passa Giuseppe Tomasi, dorme nella stanza degli ospiti – ospiti al plurale, ma di fatto c’è solo lui – dove scrive pezzi di Gattopardo e fa le burle coi cugini. Per partecipare ai cenacoli della Villa, ricorda Gioacchino Lanza Tomasi, “bisognava spogliarsi da ogni remora etica”, perché “i Piccolo conversavano alla Rabelais o alla Pulci, fanfaluche si susseguivano a fanfaluche”.

 

A Tomasi Lampedusa, che gira l’Europa e l’America, e firmandosi il Mostro manda lettere a Casimiro, piacciono gli scherzi

A Giuseppe Tomasi Lampedusa, che gira l’Europa e l’America e, firmandosi il Mostro, manda lettere a Casimiro che invece sta sempre a Capo d’Orlando, piacciono gli scherzi. Ai Piccolo, anche. A Casimiro più di tutti, e ogni tanto Giuseppe deve rimetterlo in riga: “Non so, caro Casimiro, quale criterio critico tu abbia adottato nel leggere la mia scorsa lettera; certo è, tuttavia, che esso era errato. Dedurre da un momentaneo languore, da una malinconia sensuale, conseguenza e preludio di taurini cimenti erotici, la conclusione di un mio definitivo scoglionamento fu ipotesi azzardata e fallace e vile. So, ben so, che un indebolimento della fibra del Mostro sarebbe accolto con viva letizia fra i falsi intimi, i falsi mistici e i veritieri impostori che potrebbero sperare di vivacchiare in pace, liberati dall’assillo della quotidiana vigilanza mostracea. Ma fra il desiderio e la Erfüllung il passo è lungo. E il Mostro è vivo, vegeto e ornato di 36 paia di ruggenti palle”. L’epistolario di Giuseppe e Casimiro è un genere letterario a sua volta e ci dice qualcosa in più del Piccolo conosciuto troppo spesso solo come “fratello di”, per altro di un Lucio conosciuto a sua volta troppo spesso come “cugino di”. Quindi, ora lasciamo stare le note vicende di Lucio e di Eugenio Montale che lo scoprì, lasciamo stare le sorti di Giuseppe Tomasi e del capolavoro che vinse lo Strega quando il suo autore era già morto (ma, come si è capito, essere passati dall’altra parte è un dettaglio irrilevante in certe famiglie: a tavola, il posto di Teresa rimase apparecchiato per sempre e lo è tutt’ora). Lasciamo stare Agata Giovanna, che prima o poi meriterà un intero romanzo: non varcò mai lo Stretto di Messina e coltivò intorno alla casa, comprando i semi per corrispondenza, un giardino botanico che non temeva azzardi. Stiamo un poco, invece, in compagnia di Casimiro, delle sue ombre e delle sue correnti (Bayt al-Rih, Casa del vento, è il titolo di un racconto che la scrittrice Elvira Seminara gli ha dedicato anni addietro).

 

Chi era Casimiro Piccolo? La prima foto che lo ritrae lo mostra così: poco più che neonato, nudo, con la faccia di chi ha tutta l’intenzione di usare la propria transizione su questa terra per prendere in giro gli umani, gli indici in su e i pollici orizzontali di chi sta scattando una fotografia. E’ un presagio: le sue foto, che da qualche anno si possono ammirare nella Casimiroteca di Villa Piccolo, sono doppiamente lunari: da un lato l’anima visionaria e pagana (levitazioni umane, ma anche di automobili), dall’altra uno spietato, e per l’epoca insolito, naturalismo (insetti a distanza ravvicinata e volti di popolani orlandini). I suoi acquerelli raccontano il mondo di maghi, fate, spiriti elementari, gran visir, genti acquatiche con cui il barone discorreva in giardino; le foto della sua consistenza terrena mostrano un uomo dalla fronte ampia e lo sguardo divertito e spaventato. In realtà, entrambi questi aggettivi sono imprecisi: Casimiro non rideva ma sogghignava, e non aveva paure ma fobie. Innanzitutto, più dei fratelli, non gradiva la luce (le persiane della Villa erano sempre chiuse, serve tanta ombra a chi, come i siciliani, deve difendersi da tanto sole): dormiva tutto il giorno e si alzava nel pomeriggio tardo. Dopo essersi lavato, sbarbato e vestito di tutto punto, il più elegante tra i fratelli principiava la rituale vita notturna disseminando ciotole d’acqua negli angoli della casa e del giardino, perché le creature, evocate dal suo aggirarsi nel buio, per lo sforzo di apparire avrebbero avuto sete, tanta sete. Che fossero fantasmi di umani, di cani o di gatti, bisognava fornir loro ristoro, bisognava che si abbeverassero. Poi bisognava discutere con mamàn, viva o morta che fosse: con rumore, battendo il pugno sul tavolo da pranzo, Teresa la terribile, in carne o in spirito, avrebbe manifestato gioia o scontentezza per i successi letterari di Lucio, per gli ospiti che passavano nelle stanze, per le scelte di famiglia e per tutto ciò che accadeva nel mondo dentro e fuori Villa Piccolo.

 

Un modo di stare al mondo scelto con un obiettivo: attraversare la vita con ludica scanzonatezza per tenere lontana la morte

Quindi, finalmente, Casimiro poteva addentrarsi nella notte: le creature con cui si intratteneva in giardino le conosciamo anche noi dai suoi quadri, le cui riproduzioni oggi spuntano nel verde intorno alla casa creando un meraviglioso effetto straniante. Il suo occhio irrequieto, onirico, scansa con leggerezza e sapienza la banalità del visibile: papaveri, fragole, chiari di luna, piogge, vespe, fichi d’india puntellano le cornici dentro cui elfi e principesse sono sentinelle di un mondo segreto del quale a poche anime elette è dato scalfire la superficie. Casimiro era (ed è, per chi vagando in villa riconosce la sua persistenza) una di queste anime. Tenere aperti i canali di comunicazione ultraterrena doveva costargli moltissimo in termini di sforzo, anche fisico: al pari delle creature fantasmatiche spossate dal loro risalire fra noi, una occasionalmente terrena come lui aveva bisogno di tutte le energie per entrare e uscire dagli abissi con disinvoltura. Nella pagella del secondo trimestre, quando frequentava il liceo Garibaldi di Palermo, classe II B, Casimiro risulta dispensato dall’ora di ginnastica: chissà quanto faticosa e devastante doveva essere, per il barone, la volgarità di una palestra, di una competizione, del confronto e del contatto con altri esseri umani.

 

Si dice, banalmente, che fosse misogino – già una parola impropria, perché indica solo la declinazione di una più generale misantropia: “scusa, dimenticavo che tu sei un po’ misogino”, scrive Lucio Tasca al nipote a chiusura di una lettera in cui commentava l’astuzia, l’intuitività e quindi la superiorità delle donne. Ma, in un’altra lettera, Giuseppe Tomasi così si rivolge al cugino, prima di salutarlo: “Il Mostro ringrazia della lunga e piacevole lettera specie pensando a quanto poco tempo tu voglia dedicare alla corrispondenza (per lo meno a quella verso la metà maschile dell’umanità)”. E’ verosimile, considerato il ritmo e il fervore della sua attività notturna, che il cervello febbrile di Casimiro non avesse spazio per altri esseri umani e che si proteggesse dal pericolo, sempre incombente, di una vita normale e quotidiana, dalla quale bisognava tenersi il più possibile alla larga. Nell’eternità, non c’è tempo per contatti impuri. Nemmeno una governante poteva toccare i suoi mobili oppure – orrore! – rifargli il letto; una volta accadde, per distrazione di un domestico, e fu una tragedia. Casimiro era intransigente sui confini della sua personale bolla, nel bagno che divideva con Agata Giovanna c’erano (e ci sono ancora) due lavabi e due bidè, perché non avrebbe tollerato di praticare abluzioni e bagnamenti negli stessi sanitari usati da altri, neppure dalla sorella. Perfino l’adorata tirannica mamàn poteva entrare nel suo mondo solo con cautela: “Il mio pittore bello”, scrive Teresa nel 1914 al marito, quando ancora si parlavano, “lavora molto e produce, a quanto pare, ma io non sono ancora stata ammessa a vedere il suo studio, fra giorni farà una piccola esposizione”. Eccolo, Casimiro ventenne che, pur di allontanare dai suoi quadri la minaccia di uno sguardo (di donna, per giunta, e di madre, per giunta) promette di metterli in mostra a breve, a brevissimo, addirittura dopo qualche giorno. Inutile dire che quella mostra non si tenne mai, ma cosa che volete sia una procrastinazione, se alle spalle e davanti hai l’eternità?

 

Le foto di Piccolo sono doppiamente lunari: da un lato l’anima visionaria e pagana, dall’altra uno spietato naturalismo

Ogni giorno, prima a Palermo e poi sulle quiete colline di Capo d’Orlando, cominciava per Casimiro con una nuova sfida, e a un certo punto fu quella di produrre illustrazioni dalla letteratura della biblioteca di casa. Vagabondando nella grigia Londra, Giuseppe Tomasi apostrofa i cugini e sbertuccia il loro oziare creativo e pretenzioso: “E voi, porci, pur fra tutti gli agi di una esistenza epicurea, voi che godete del più possente sole d’Europa, voi che altra occupazione non avete all’infuori, l’uno, di tentar d’apprendere la lingua italiana della quale è a digiuno, l’altro di castrare le novelle di Wilde e di trarne pudiche immagini da presentare ai giovinetti proprio durante l’età nella quale essi sogliono realizzare le più elaborate immaginazioni del poeta per più versi illustre, voi dico, non avete saputo per un momento distogliere le vostre menti dalla quotidiana profanazione delle arti, per rispondere al Mostro, al povero Mostro lontano, solo, ramingo. Porci, ripeto”. Il Mostro e i porci, una storia che più siciliana non si può.

 

Torniamo alle fobie. Casimiro non sfiorava nulla senza aver prima indossato un paio di immancabili guanti bianchi, e per sedersi a tavola scostava e riaccostava la sedia con un movimento di piedi magistralmente orchestrato: lo aveva perfezionato negli anni, affinché la mano non si avvicinasse al cibo già contaminata da altri tocchi. Teneva al proprio abbigliamento con cura maniacale, e Gioacchino Lanza Tomasi lo ricorda così: “Un bel giorno Casimiro comparve a Palermo. Era primavera, l’aria tiepida. Lampedusa e io lo vedemmo arrivare da Mazzara. L’abbigliamento non poteva passare inosservato. Sopra dei calzoni di flanella Casimiro era rivestito di cuoio giallo. Una sorta di scafandro o tuta da motociclista di una antica corsa del Monte Pellegrino ai tempi dei Florio. Una calotta di cuoio dello stesso colore e dei guanti analoghi strettamente abbottonati. Occhiali scuri con montatura di plastica concordante. La sua voce era esile, timida. Lo si vedeva spaesato”.

 

Elfi e principesse sono sentinelle di un mondo segreto del quale a poche anime elette è dato scalfire la superficie. Piccolo era una di queste

Eccolo, già in queste righe si è materializzato. E invece no, perché c’è un rischio, quando si parla dei Piccolo, e di Casimiro in particolare, ed è perdersi nell’infinita aneddotica che può produrre, per orecchie profane, la liquidazione di creature aurorali in esseri mattacchioni, un po’ strampalati e decisamente caricaturali. Per questo c’è un momento in cui bisogna fermarsi nel proiettare e fare un passo indietro, senza insistere, nascondendosi come gli elfi in giardino. Non è (solo) di stravaganza che stiamo parlando: quella senz’altro esiste, come cifra estetica, pittorica, fotografica, poetica, ed è la superficie, ma c’è di più nel labirinto in cui si trova precipitato chi voglia discorrere con la famiglia che esprime, in purezza, l’essenza sfuggente e l’anomalia di un’aristocrazia isolana che è sparita, e se n’è andata di scena dopo aver sprigionato le sue scintille migliori. Quando Lucio Piccolo avvertiva i visitatori di non contraddire il fratello, di non negare fantasmi e apparizioni, da un lato lo proteggeva e dall’altro si dichiarava complice di un modo di stare al mondo scelto da tutti loro con un obiettivo preciso: attraversare la vita con ludica scanzonatezza per tenere lontana la morte.

 

Cosa sono i giochi di Casimiro con i colori, quelli di Lucio con le parole e di Agata con le piante se non la continuazione dell’infanzia con altri mezzi, la sua eternizzazione? Tra acquerelli fantastici e foto psichedeliche, Casimiro ha vissuto per guardare e per lasciare a noi, in eredità, il suo occhio; il suo talento non aveva bisogno di una mostra né avrebbe potuto mescolarsi con le mode dell’epoca: “Io, quei pittori moderni che deformano non li posso proprio sopportare” avrebbe sibilato una volta, riferendosi a Goya. Non ci sono prove della veridicità di questa affermazione, ed è difficile, in effetti, immaginare tanto risentimento fuoriuscire dalla bocca di un genio al quale il pudore (o il senso del ridicolo) impediva persino di autodefinirsi artista. Eppure, come in molti aneddoti inventati, c’è del vero: Casimiro non aveva bisogno di deformare, ovvero di forzare, la realtà, per il semplice fatto che ne vedeva un’altra. Le ossessioni che lo pervadevano erano il mezzo per sostenere l’impegno costante di uno sguardo altrimenti impossibile; il suo amore per le burle, per i paradossi, per l’eccesso di ironia era l’unico sentimento dentro il quale uno spirito inafferrabile poteva tollerare quel minimo di normalità che l’essersi fatto uomo richiedeva. Della fama che la sua opera non ha avuto, non abbastanza, non vale la pena occuparsi: ciascuna delle tracce che Casimiro Piccolo di Calanovella ha lasciato su questa terra tradisce da un lato un desiderio maniacale di oblio, dall’altro la tipica irrequietezza attraverso la quale gli esseri marginali definiscono la propria superiorità sul resto del mondo. E chissà come come dev’essere minuscola la parola “gloria”, a guardarla dall’eternità.