In memoria del caro giocattolo
Quando ci si poteva ancora fare male, divertendosi. Un libro nostalgico di Andrea Angiolino
Per chi come me ha passato l’adolescenza in un paese di provincia, faticando per mettere su un gruppo di giocatori di ruolo, quello di Andrea Angiolino è innanzitutto il nome di un amico: il suo, infatti, non di rado storpiato in Andrea Angiolillo, era uno di quelli più ricorrenti su “Kaos”, prima rivista italiana di giochi di ruolo e immaginari fantasy a venire distribuita in edicola, e a portare – a noi che la cercavamo e chiedevamo ossessivamente (la sua periodicità era, a esser gentili, ondivaga) – nelle più remote edicole della più remota provincia italiana dei primi anni Novanta, un messaggio. Una voce che diceva: non sei solo, altri come te hanno questa passione.
Nel frattempo – è passato un quarto di secolo –, amici lo siamo diventati veramente, e quel buontempone dell’Angiolillo ha continuato a scrivere di giochi – e a scrivere giochi: chi non ha ancora fatto una partita al suo Wings of glory provi e ci dica – diventando uno dei massimi esperti del settore. Un settore che confina, e sovente si sovrappone, almeno per ciò che riguarda l’infanzia, con quello dei giocattoli, di cui oggi Angiolino viene a raccontarci la storia. “Storie di giocattoli - dall’aquilone al Tamagotchi”, appena pubblicato da Gallucci, presso cui è uscito due anni fa il suo diretto predecessore, “Storie di giochi - dal nascondino al sudoku”, si presenta come un dizionario (un altro titolo avrebbe potuto essere “Dagli aeroplanini allo yo-yo”, anche se così il libro avrebbe avuto un’aria un po’ retrò), con i giocattoli elencati in ordine alfabetico, per schede brevi ma non prive di afflato narrativo e soprattutto ricchissime di curiosità: dalla filiazione radioattiva del Piccolo chimico – l’Atomic energy lab, completo di campioni di uranio, per fortuna rapidamente tolta dal mercato – al Cicciobello orientale chiamato Ciao Fiu-Lin (nome, avverte Angiolino, “da leggere con intonazione padana per comprenderne la sottigliezza”), dall’assenza dei toni di grigio e di verde scuro nel Lego per prevenire la costruzione di mezzi militari alla nascita del frisbee dai trastulli degli operai della Frisbee Baking Company, che si lanciavano i coperchi di latta dei contenitori.
Quello che colpisce, lasciandosi condurre da Angiolino in questo viaggio tra i giocattoli storici e quelli oggi più noti e diffusi, è quanto, salvo singoli prodotti che hanno imposto un immaginario, oltre che un marchio – Barbie, Transformers, Cicciobello, Gormiti (ma non ci sarebbero stati Gormiti senza Exogini…) – i giocattoli siano in fin dei conti sempre gli stessi. In un campo che propone innumerevoli variazioni commerciali ogni anno, le forme base restano in numero ridotto, e fatte salve quelle davvero archetipiche – cerchi, palle, corde e pupazzi –, le moderne si riallacciano per lo più a una fase chiave della nostra storia: quel momento tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento in cui si credeva di aver addomesticato la tecnica e al tempo stesso si formavano i primi embrioni del consumismo, e in cui tuttavia il “culto del fanciullo” non era ancora arrivato all’odierna ossessione per la sicurezza.
Il risultato, infatti, tra boomerang e reazioni chimiche, è che si esce dalla lettura di “Storie di giocattoli” – o almeno, questo capita a chi come me appartiene all’ultima generazione che ha potuto giocare in strada – con un vago senso di nostalgia per quel periodo (giustappunto precedente alla scoperta dei giochi di ruolo, e con essi della possibilità di divertirsi anche stando in casa) in cui giocando ci si poteva anche fare male – e il bello, forse, stava proprio in quel brivido d’incoscienza.