Il disagio di una madre, il diritto di essere infelici e il suicidio come via d'uscita
“Svegliami a mezzanotte”, il libro di Fuani Marino
"Quel sacco nero ero io”. E’ un pomeriggio d’estate in una città di mare, quando dal quarto piano di una palazzina cade qualcosa. Sembra una macchia informe, invece è il corpo giovane di una donna che non vuole più vivere. Una donna che da mesi valuta le altezze in cerca di un punto da cui buttarsi, e finalmente trova il coraggio. Quel sacco nero è Fuani Marino, l’autrice del libro che stiamo leggendo, “Svegliami a mezzanotte” (Einaudi). “Ricordo perfettamente la vertigine, la forza di gravità che da concetto astratto diventa sensazione. Ho pensato che ci sarebbe voluto poco, che era questione di attimi: poi sarei morta… A differenza di quanto si crede, non mi è sfilata davanti tutta la vita, non l’ho vista, era come se non ci fosse mai stata. C’ero solo io che precipitavo perché volevo farlo, perché quel volo era un mezzo per raggiungere la fine, mi sono detta questo: sta per finire.” Ma quella donna non muore. Il suo volo verticale non è il termine di qualcosa, è una frattura. Tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere c’è ormai una distanza incolmabile.
Fuani: nasce dall’unione di Furio e Anita, i nomi dei due genitori. La protagonista si porta dietro fin dall’inizio il destino di essere dimidiata, o spezzata, se non semplicemente costretta a sentirsi diversa. Fuani è una giornalista napoletana che non sa quale direzione dare alla sua carriera, una moglie che si percepisce inadeguata, la madre di una bambina di quattro mesi che si sente sopraffatta dal senso di responsabilità. E’ stata la liceale che già avvertiva su di sé i sintomi di una depressione, qualcosa di diverso dalla semplice tristezza, qualcosa che assomiglia a una perdita di senso. Ed è qui, in questo nucleo, la forza del libro. Chi non ha mai provato quella sensazione? Chi non si è mai chiesto le motivazioni profonde del suo esserci nel mondo? Fuani Marino cita lo psichiatra Piero Cipriano: “Siamo tutti potenzialmente matti, perché tutti potenzialmente indisponibili ad accettare le circostanze storiche in cui viviamo, tutti potenzialmente e intimamente disperati”. Non si può che rimanere affascinati dal coraggio di questo memoir che diventa un’indagine scientifica e letteraria del proprio disagio psichico, oltre i tabù, oltre lo stigma sociale. Il tentativo di rivendicare per tutti – con un atto politico – il diritto a essere infelici, la possibilità che la nostra mente si possa ammalare come accade alle altre parti del nostro corpo. Soprattutto per le donne. Come fa una donna affetta da disagio psichico ad affrontare la maternità? Perché le donne vengono lasciate sole davanti all’evento tanto sconvolgente di diventare madri, come se l’accudimento nei confronti del nuovo nato fosse dato per scontato? Marino ci ricorda le maternità difficili e controverse di Emma Bovary e Anna Karenina, entrambe morte suicide. “Non posso fare a meno di chiedermi quale disturbo psichiatrico si sarebbe potuto diagnosticare a entrambe. Nei manicomi venivano rinchiuse non solo le persone considerate affette da diverse forme di malattia o ritardo mentale, ma anche chiunque risultasse deviante rispetto a quanto la società si aspettava da lui o, più spesso, da lei. Nei confronti delle donne gravava un atteggiamento severo per le inadempienze riguardanti gli ambiti coniugali e domestici, per secoli gli unici cui potessero ambire”. Sarah Kane, Francesca Woodman, Virginia Woolf, David Foster Wallace, Primo Levi, Cesare Pavese, Sylvia Plath. Sono tanti gli esempi illustri che Marino indaga, tante le morti perseguite volontariamente. Ci sono anche quelle anonime: una compagna di liceo, il padre di un amico.
Marino descrive bene questa vertigine, perché se la mente si può ammalare, se può accadere a chiunque, allora il suicidio è una via di uscita. Una possibilità dentro la vita. E’ difficile da dire e da concepire, come i segni che il corpo della protagonista si porta addosso dopo la caduta.
“Lei è una ferita vivente”, le dice il neurochirurgo. Tanto più che le emozioni nei confronti del suicida sono quasi sempre ambivalenti: pena, rimorso, biasimo. Alla protagonista è toccato rivolgere a se stessa l’ambiguità di questo sentire. Eppure, in tutto il libro, si sente il rispetto per la propria malattia, per il proprio disagio. Da ultimo, l’accettazione dolorosa del proprio gesto.
Foster Wallace diceva che la letteratura si occupa essenzialmente di cosa vuol dire essere umani. E’ quello che fa “Svegliami a mezzanotte”. Lo fa mettendo al centro una donna: il suo senso di vuoto, e poi la sua voglia di sopravvivere a se stessa. La sua speranza di non cadere più.