L'adolescenza è una guerra, soprattutto per i trans. Una graphic novel

Simonetta Sciandivasci

Il secondo libro di Fumettibrutti è un documentario disegnato

Roma. Josephine Yole Signorelli è una fumettista bizzarra e bravissima. Ha ventotto anni e il suo nome d’arte è Fumettibrutti, forse perché ha un tratto sghembo, essenziale e sì: anche brutto. La graphic novel che ha appena pubblicato, dopo quella d’esordio “Romanzo esplicito”, si chiama “P. La mia adolescenza trans” (Feltrinelli) e racconta di lei, un ragazzino che non si riconosce come maschio ma come femmina e ne soffre, prende botte, insulti, perde amici, va in cura, va coi maschi, non sa come vestirsi, non sa bene come parlarne e con chi, non capisce se il sesso sia un’identità da scegliere o un genere da accettare. Si chiede, a un certo punto, dopo averne provate tante, in posti molto squallidi con persone altrettanto squallide, se quando si muore si abbia un aspetto che assomiglia alla propria anima o “a come ci ha fatti Dio”. Non immaginiamo quanto possa essere doloroso nascere in un corpo di un genere in cui non ci si ritrova, noi adulti che ci illudiamo che il sesso sia diventato un problema da quando se ne parla troppo, forti di quanto stavamo meglio noi, quando quello che avevamo tra le mutande non era fonte di domanda ma di certezza (ma era davvero così per tutti? No, naturalmente: l’intersessualità esiste in natura, da sempre). Non immaginiamo che crescere sia diventato, per le generazioni che vengono al mondo nel tempo che fluttua tra binarismo sessuale e gender fluid e riappropriazione di sé e autodeterminazione precoce, un complesso sofferto romanzo di formazione dove tutto dipende dal corpo, dalla percezione che ne hanno gli altri, una guerra contro sé stessi ma per sé stessi. Non immaginiamo come sia diventato tutto stretto per i piccoli che il proprio posto nel mondo lo decidono a partire dal sesso a cui sentono di appartenere, e che non è detto coincida con quello assegnato loro alla nascita. Invece, dovremmo cominciare a farci i conti almeno quanto li facciamo con i molti prigionieri che ha fatto che la liberazione sessuale.

 

A giugno l’Organizzazione mondiale della sanità ha stabilito che la disforia di genere (non riconoscersi nel sesso assegnato alla nascita) non è un disturbo mentale. Servirà? E a cosa? E che posto sarebbe, il mondo, se il genere sessuale smettesse di essere una catalogazione e diventasse l’esito di un percorso del tutto personale? “Non credo che per essere donna ci sia bisogno di questo”, dice P., il protagonista (la protagonista), al dottore che l’ha in cura e che sta accompagnandolo verso l’operazione di cambio del sesso. Proprio lui, lei, che ha passato mesi a ferirsi con le lamette, nascondersi, disegnarsi con un taglio tra le gambe che tutti, genitori, dottori, ormoni, amici, professori, sono inadeguati a chiudere, e che P. capisce di voler lasciare aperto a lungo, per accogliere la trasformazione, non certo per sanguinare.

 

“Mamma, ti ricordi quando da piccolo mi chiamavi sempre stella? Mi piaceva, mi faceva stare bene”, dice P. a sua madre, quando quel suo corpo da “maschio mancato” comincia a essere un elefante nel salotto di casa, un enorme dolcissimo animale che vuole essere amato, e avere un divano per sedersi, senza che nessuno si chieda se reggerà e quanto disturbante e imbarazzante sarà il tonfo che produrrà quando e se i piedi cederanno e i cuscini si sfonderanno.

 

Questo di Fumettibrutti è un documentario disegnato, il diario di una coscienza che si forma e, per farlo, si libera di noi, che stiamo dall’altra parte a chiederci se è giusto, se è sbagliato, e se il genere sessuale sia davvero una sovrastruttura culturale obsoleta che ha preso a far male, e che mondo creeremmo se tutto diventasse intercambiabile come gli accessori delle Barbie della collezione “Creatable World”: pupazzetti di genere neutro a cui si può dare connotazione maschile o femminile a seconda di come ci si sente – che sciocchezza; che sciocchezza?

 

Esiste lo xenofemminismo, che non propone l’abolizione del genere, né disconosce la natura, ma proprio della natura ha l’idea che sia un ente mutabile, nient’affatto sacro, sul quale l’essere umano può e deve intervenire, innanzitutto svincolandola dalla sua stessa tassonomia. Molto prima, o semplicemente al di là della teorizzazione femminista, esiste chi nasce scisso, o diverso da ciò che sembra, o mutabile: nasce uomo e, parecchi anni dopo, in una mattina qualunque, si sveglia donna, come l’Orlando di Virginia Woolf. Forse potremmo iniziare a pensare a come non condannare una parte consistente di persone sessualmente indefinite, incerte e divise a eccessi, pressioni, segregazione e violenza, e chiederci come lasciarle libere, senza lasciarle sole.

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