L'autore semiserio
Gli effetti di Capri sugli scrittori e soprattutto su Colm Tóibín, l’irlandese con l’ossessione per la Regina e per la tecnica delle emozioni
Colm Tóibín arriva a Capri, mangia la sua mozzarella e subito si butta a mare, di fronte al faraglione. Lo scrittore irlandese parla della regina Mary, assaggia le vongole e un gelato al gelso, guarda divertito le masse napoletane e coreane coi numeretti che si incuneano nei vicoli capresi. Passa anche Chiara Ferragni, torva, affaticata dalle stories, con un seguito di gente in tuta. Capri. Lo scrittore è qui per ritirare il premio Malaparte, fondato anni fa dalla leggendaria Graziella Lonardi Buontempo (per lei fu inventata “luna caprese”) e rilanciato dalla nipote Gabriella. E’ un premio molto allegro e familiare, tra un retreat e una gita scolastica appena fuori stagione. Si sciama tra giuria e amici e carboidrati e zucchine fritte: e lui sembra perfettamente a suo agio. A sessantaquattro anni ha attraversato alcune esperienze peculiari: essere pubblicato e rinomato internazionalmente, essere gay, avere il cancro. Sembra oggi aver trovato una quadratura di esistenza e stile, entrambi produttivi e poco ansiogeni, una tranquillità & trasandatezza che ne fanno un animale diverso dalla classica star letteraria: anche al Malaparte dove ci si ricordano caratteri ben più complicati. Per esempio Donna Tartt, premiata nel 2014, presenza severa e altera, perennemente in tailleur pantalone, asserragliata al Quisisana dove precettava un parrucchiere che la doveva rinfrescare ad ogni intervista, dunque anche cinque-sei volte al giorno. Poi, nella tradizionale cena del primo giorno, apparve ancor più gelida a tavola, nonostante le mozzarelle e i ravioli; ma succede un fatto. Un pregiato scrittore della giuria va al bagno, sbaglia porta, e si ritrova la celebre scrittrice del “Cardellino” accovacciata, paralizzata dallo stupore e dall’imbarazzo. Invece che fuggire, lui peggiora pure la situazione, come spesso accade in questi casi, le attacca pure un discorso, tipo “eh, sa, io vado sempre nel bagno delle donne, perché son più puliti” (per fortuna accadde pre #MeToo e in Italia, se accadesse oggi ad altre latitudini varrebbe la pena di morte). Lui torna a tavola stravolto, lei poco dopo sopraggiunge. Tutti terrorizzati per le sicure ripercussioni, la Tartt invece proprio un’altra persona, “ragazzi, andiamo a fumarci una sigaretta, domani tutti al mare”. Insomma la fatale agnizione al cesso l’ha completamente sbloccata.
A sessantaquattro anni ha attraversato alcune esperienze peculiari: essere pubblicato e rinomato, essere gay, avere il cancro
Talvolta Capri dà effetti ancor più profondi sulla delicata psiche degli scrittori: due anni dopo Elizabeth Strout esperta di narrazioni ospedaliere doveva esser premiata per il suo ultimo romanzo, “Mi chiamo Lucy Barton”, in cui la protagonista colpita da appendicite dal suo letto di ospedale a New York rimira in finestra il Chrysler Building “con la sua scintillante geometria di luci”. Prima ancora di sbarcare a Marina Grande invece la Strout finisce dritta al Cardarelli, con un attacco di filologica appendicite acuta – la vita imita l’arte – e lì vista semmai sul Vesuvio, panico tra gli organizzatori del Malaparte, mobilitazione generale, lei poi scriverà entusiastici resoconti della sanità partenopea gratuita (pare che i medici vesuviani le abbiano anche consigliato scaramanticamente: basta scrivere di ospedali). Ci furono poi vari nubifragi, con Julian Barnes in una Capri allagata che lo faceva sentire molto a casa nelle sue piovose Midlands, e Karl Ove Knausgård molto ombroso-nordico come le sue storie, ma poi ciarliero e mediterraneo sul calcio. E l’anno scorso, Richard Ford con la sua faccia da americano tranquillo, e una moglie guardinga in tacco dodici su e giù per via Camerelle. Quest’anno, invece, ecco “the irishman”, che si concede in tutto, e ciondola volentieri nella tre giorni del premio (che prevede: giorno 1, pomeriggio libero e cena sociale al ristorante Paolino; giorno 2, conferenza-pranzo stampa al Quisisana; pomeriggio al municipio di Capri con altre domande da parte dei giurati; seratona a casa Pontecorvo, della dynasty della Ferrarelle che sponsorizza il premio; giorno 3, premiazione ufficiale alla Certosa e lectio magistralis). Ovviamente giurati e giornalisti tentano di sottrarsi e fuggire fantozzianamente verso il mare ma la Buontempo riacciuffa tutti. Così a colazione eccoci al Quisisana pronti per la conferenza stampa; ma prima Tóibín si apre molto alla chiacchiera: a Los Angeles dove vive qualche mese l’anno con questo suo fidanzato fanno vita “da perfetti suburbani, molto ritirata”. Chi frequenta? Bret Easton Ellis non lo vede molto, forse sono segreti nemici; ogni tanto va su a San Francisco dove è molto geloso di Andrew Sean Greer che col Pulitzer e l’energia dei quarantott’anni ha un sacco di ammiratori giovani californiani, però non c’è mai, “è sempre in giro, sempre in giro”, dice Tóibín quasi parlando di sé, lui che passa sei mesi a New York a insegnare alla Columbia e il resto appunto tra Los Angeles e l’Europa. Ha una predilezione per le terre di confine, le isole, ha abitato oltre che in Irlanda in Catalogna, e parla perfettamente spagnolo, dunque bisogna stare attenti a non dir niente in italiano davanti o dietro di lui, ché capisce tutto. Viaggia con una migliore amica e travel buddy Catherine, dal carattere più insulare, che lo protegge. Lui è infatti molto giocherellone, ci si mette d’accordo per fargli una domanda demenziale: donde trae l’ispirazione (“ah, sì bellissima, però fammi anche l’altra che mi fanno sempre: ‘suo padre la picchiava da piccolo?’”). Poi però ridiventa serissimo nel lunch-conferenza stampa al glorioso albergone con vista sulla piscina in cui Fantozzi si tuffava senz’acqua. Cambia quasi personalità, diventa malinconico e risponde a tutto. “Nessun bambino è veramente felice. Però dall’infelicità ricavi immaginazione letteraria, dalla felicità tuttalpiù’ qualche bel ricordo” (padri e figli è un tema molto suo: orfano precoce, ha dedicato anni a studiare genitori letterari ingombranti come quelli di Wilde e Yeats e Joyce).
Nei suoi romanzi non viene mai fuori questo gran talento comico che dispiega invece oralmente. Il tema del cancro
Tutti gli chiedono soprattutto dell’Irlanda, e della Brexit. “Ci hanno sempre detto che noi irlandesi siamo irrazionali e emotivamente inaffidabili e naturalmente nazionalisti”, gongola, nuovamente allegro. “Adesso invece siamo qui a osservare con costernazione quello che accade nell’isola vicina: loro stanno diventando noi”. Ma come si spiega che la sua terra abbia più scrittori di chiunque altro per chilometro quadrato? “Beh”, risponde, “noi non abbiamo uno Schubert irlandese, non abbiamo un Rembrandt irlandese. Siamo sempre stati poveri, abitiamo in poveri villaggetti sperduti, e quando nasce un bambino l’unico modo per farlo uscire dalla miseria è dargli un’istruzione. Così magari andrà a Londra. Bram Stoker e Oscar Wilde e George Bernard Shaw e Beckett e Yates sono tutti irlandesi che sono partiti per Londra. Insomma: gli inglesi ci hanno dato l’inglese: e noi glie l’abbiamo restituito”.
L’Inghilterra oggi gli pare un animale sdraiato all’insù che agita inutilmente le zampette, e però salta sulla sedia quando gli si chiede se la Corona sopravvivrà alla morte di Elisabetta, naturalmente tra cent’anni (è un grande esperto di Windsor, con expertise soprattutto su Queen Mary). “Oh, ma certo, gli inglesi adorano le classi sociali, specialmente quelle alte, e venerano la Corona perché sta sopra a tutte, dunque non potrebbero mai farne a meno. La regina Elisabetta poi è divina, quando è venuta a fare la visita di stato a Dublino nel 2011 è stata proprio perfetta, tutto perfetto, un discorso magistrale. No, non sono per niente ironico. Del resto aveva visitato praticamente tutte le nazioni del mondo tranne la nostra. Mi ha stretto pure la mano, chissà se sapeva che mio nonno aveva tentato di uccidere il suo”, civetta Tóibín , suo nonno era infatti pura aristocrazia dell’Ira, un pezzo grosso che finì incarcerato in Galles. Qualcuno sospira: oh, ha toccato dunque la Regina! E lui: “se è per questo ho toccato pure Borges”. Insomma i Windsor supereranno indenni tutte le crisi attuali (non solo la Brexit, ma anche la ciaciona Meghan, e le nuove sporcacciate del principe Andrea). “E certo lo so, è una cosa medievale, e fa un po’ ridere, i duchi e le duchesse, però sono così bravi. Per esempio Camilla Parker Bowles, la duchessa di Cornovaglia, è una grande lettrice, e ora è patronessa del Booker Prize. L’ho conosciuta a un ricevimento e lei stupenda mi ha detto un generico: ‘gli irlandesi sono bene accetti ovunque nel mondo’, e io per l’entusiasmo ho risposto ‘anche lei, altezza, è bene accetta in Irlanda quando vorrà venire’, mi son fatto un po’ prendere la mano, ecco”.
Sulla pagina invece è sorvegliatissimo, nei suoi libri che iniziano sottotono e poi si imbarcano di emozioni; però sempre serissimi. “A Parigi Hemingway” – uno dei suoi modelli, si vede l’influsso, che lo rende comprensibilissimo e forse costituisce parte del successo internazionale – “ammirava i Cézanne di Gertrude Stein, e si mise a cercar di capirne la tecnica. Era: dare una prima pennellata, e poi una variazione sulla pennellata, e poi una seconda variazione. E’ così anche nella scrittura, s comincia col pennellino di marmora, ma poi deve arrivare la gran pennellata. E soprattutto l’emozione, altrimenti vien fuori una parodia, vien fuori un libro tutto controllato, un libro morto. L’avvio hemingwaiano pare facile, pare normale, lineare, ma se non passi mai al pennello grosso ti ritrovi un libro morto. Naturalmente ci arrivi col tempo, ti accorgi che manca qualche cosa. Il lavoro dello scrittore è imparare a correggersi da solo. Anche Lucian Freud lo fa: passa da una pittura tutta di segno, tutta contorni, al pennello grosso che dà spessore. Questa è la grande trasformazione che occorre fare”.
A Los Angeles, dove vive qualche mese l’anno con questo suo fidanzato, fanno vita “da perfetti suburbani, molto ritirata”
Però nei suoi romanzi che trattano di legami familiari e saghe e mitologie molto serie e “alte”, un eterno nostos e ritorno a casa reale e leggendario, padri e isole, non vien fuori questo gran talento comico che dispiega invece oralmente: il cancro, da cui è guarito, è una delle sue storie preferite. “Ah, ho fatto una quantità di chemio. Un botto di chemio. Mi usciva dalla bocca la chemio. Non riuscivo a fare niente. Non dormire, non mangiare, non fare sesso, non ascoltare la musica. Non scrivere. E poi a un certo punto quando sono tornato a New York per la prima volta dopo mesi mi è venuta in mente una frase, la prima frase intera da scrivere a cui sono riuscito a pensare dopo un sacco di tempo: ‘tutto cominciò dalle mie palle’”. “Sulle mie palle ho scritto anche un pezzo sulla London Review of Books”. Sul romanzo testicolare viene interrogato da Diego De Silva, giurato del Malaparte, che c’è passato pure lui, e “posso dartene una delle mie, se vuoi”, gli dice, e parte tutto un joke su palle vere e di plastica, loro valore commerciale singole e la coppia (però il giorno dopo, in Comune: “Non serve proprio a niente la sofferenza. Non mi servirà neanche per scrivere uno di quei manuali da self help, tipo ‘abbiate coraggio, tenete duro’, no, ecco. La malattia non ti insegna niente, quello che ho imparato lo sapevo benissimo anche prima, è solo una gran scocciatura”.
“La regina Elisabetta è divina, quando è venuta a fare la visita di stato a Dublino nel 2011 è stata proprio perfetta, un discorso magistrale”
Come Hollywood: dal suo “Brooklyn” è stato tratto infatti un noto filmone, che ha preso tre Oscar nel 2016. “Ah, vorrei tanto dire che è stata un disastro la trasposizione cinematografica, sa, hanno completamente stravolto la mia storia, è stato terribile, insomma quelle cose che senti sempre dire agli scrittori”. “Ma Nick Hornby come sceneggiatore l’ho voluto io, è stato bravissimo, e il film ha aiutato un sacco le vendite del libro. Sono finito per la prima volta negli aeroporti. Nelle librerie degli aeroporti, capisci?”. Ma sarà per la vicinanza della piscina fantozziana, che di questi Oscar viene fuori un racconto abbastanza esilarante, chiaramente molto collaudato, che lui si lecca i baffi per raccontare. “Avevamo tre nomination. Così io mi aspettavo un invito in pompa magna. Ma se sei lo scrittore del libro da cui è tratto il film, non ti vogliono neanche vedere agli Oscar. Io ho insistito, e alla fine mi hanno fatto entrare da un’entrata posteriore. Altro che red carpet. Mi hanno dato un posto in fondo in fondo. Una volta lì nel teatro volevo andare a salutare gli attori, ma la sicurezza non mi ha fatto passare. Alla fine l’unica cosa buona è che ogni cinque minuti c’era una pausa per mandare la pubblicità, e io mi piazzavo al bar dove un barista irlandese, riconosciuto il mio accento, mi versava da bere. Poi sono andato al party di Vanity Fair, e c’era uno che sembrava Elton John e l’ho salutato, ma lui non mi ha filato per niente, poi c’era una che urlava a squarciagola, e alla fine mi hanno detto che era Lady Gaga. Poi sono andato a dormire”. Dice che ci ha provato, nei suoi libri, a scrivere cose divertenti, ma proprio non ce la fa. Rimane dunque un grande umorista orale. A Capri gli va comunque meglio che a Hollywood: vezzeggiato, ma senza troppe smancerie, viene perfino trascinato in una tammuriata. “E pensare che un vecchio detto proibisce agli irlandesi dabbene solo due cose: l’incesto, e i balli popolari”, dice, serio, mentre dispensa autografi e dediche. Ma poi si butta nelle danze, in una scena che non metterebbe mai in un suo libro.