Piccola Russia
Il lessico familiare di Laura e Beppe Boffa nella Mosca di Kruscev. Le cattive compagnie e una collezione che è una narrazione estetica
Mosca, aeroporto di Sheremetevo, inverno 1963. “Frequentate cattive compagnie, tovarish Boffa, state più attento”, disse a bruciapelo Boris Ponomariov. “Frequento cittadini sovietici” fu la replica sorpresa ma non intimidita di Giuseppe Boffa. Solo pochi anni prima il corrispondente dell’Unità aveva commentato la svolta impressa da Krusciov nella vita dello stato sovietico dopo la denuncia del dispotismo rivoluzionario bolscevico (i “crimini di Stalin”) e i tentativi di liberalizzazione del regime comunista. Ma la parabola aperta dal “disgelo” si era andata rapidamente consumando e si avvertivano già i segnali di una battuta d’arresto dei propositi di rinnovamento assieme alla prossima, brusca conclusione del destino politico di Kruscev.
La “tiratina di orecchio” di Ponomariov era forse un avvertimento, nemmeno tanto bonario, rivolto al compagno giornalista italiano perché moderasse gli entusiasmi riformisti. D’altra parte, quali fossero le “cattive compagnie” da cui Giuseppe Boffa si sarebbe dovuto guardare, secondo il potente capo della sezione Esteri del Cc del Pcus (un “sottoprefetto asburgico”, lo definiva Mario Alicata), non è difficile immaginare.
Si trattava in generale degli ambienti innovatori, delle correnti di pensiero interne ed esterne al partito, delle riviste culturali e letterarie (il Novyj Mir di Aleksandr Tvardovskij) che predicavano timidamente il pluralismo in economia e azzardavano con cautela ipotesi di democrazia politica. Ma era anche il mondo di una certa élite intellettuale, ormai appartata, che aveva fiancheggiato la Rivoluzione d’ottobre e aveva attraversato in modo controverso gli anni Trenta e i tempi più bui delle persecuzioni: dallo scrittore Ilja Erenburg (autore del romanzo post-staliniano “Il disgelo”) a Lili Brik, la fascinosa amica ispiratrice di Vladimir Majakovskij, nella cui cerchia ruotava ancora tutto un mondo d’arte e di cultura, dalla danzatrice Maja Plisetskaja ad Aleksandr Tyšler, pittore di fiabesche visioni ricavate dal mondo ebraico ucraino, così vicine alle immagini di Chagall, che nel tempo del “grande terrore” aveva smesso di dipingere liberamente per dedicarsi al lavoro di scenografo per il teatro di Shakespeare.
C’era un mondo emergente di scrittori, pittori e scultori che andava rivendicando una sempre maggiore autonomia e libertà. Formò una singolare collezione di quadri e sculture che ritrae l’homo sovieticus negli anni in cui si riscopriva il valore della persona
C’era però soprattutto, tra le “cattive compagnie”, quella parte di nuova generazione, tutto un mondo emergente di scrittori, pittori e scultori che con le loro istanze di rinnovamento andavano rivendicando una sempre maggiore autonomia e libertà di espressione. E il fermento riformatore di questo mondo libertario aveva provocato da poco (alla fine del 1962) una clamorosa polemica pubblica nel corso di una mostra semiufficiale allestita al Maneggio, a due passi dalla Piazza Rossa, dove Nikita Krusciov – scandalizzato dalle opere “formaliste” che vi erano esposte – si esibì in un dileggio dell’arte moderna ingaggiando un battibecco-alterco con lo scultore Ernst Nejzvestnyj – già valoroso combattente nella “guerra patriottica” – che gli seppe tenere testa in difesa della sua arte.
“Appena percettibili, erano apparsi i primi segni di quello che poi sarà chiamato il dissenso. Ma non era ancora scontato che dovesse trasformarsi in opposizione politica”: così Beppe Boffa – sempre misuratissimo nelle espressioni e quasi rigido nei princìpi – commentò il clima di quel periodo nelle sue “Memorie dal comunismo” (1998), testimonianza ricca di esperienze e di suggerimenti preziosi per conoscere da vicino la vita, la morale, il costume e le aspirazioni della società russa nel tempo del disgelo post-staliniano. E di quel tempo, gravido di cose sperate e di promesse non mantenute, egli fu testimone e interprete eccellente, esercitando un ruolo duplice di giornalista e ambasciatore della politica circospetta e cautamente revisionista del Pci.
Ma ad arricchire l’esperienza politica e documentaria di Boffa, con una maggiore adesione spontanea e sentimentale, fu senz’altro sua moglie Laura, che prestò grande attenzione alla vita e alle vicende personali degli artisti frequentati, con tutte le loro avventure e disavventure estetiche, e alla confezione morale della loro opera, spesso custodita ai margini della ufficialità imposta dal regime. E’ proprio lei a ricordare come sul finire del 1962 a Mosca “fu Giuseppe De Santis, che girava ‘Italiani brava gente’, insieme a sua moglie Gordona, a introdurci nella cerchia dei giovani pittori moscoviti. Con loro conoscemmo Oskar Rabin, Vjaceslav Kalinin, Boris Birger e i loro amici…”.
Laura Boffa fu giornalista a fianco di Beppe come corrispondente di Noi Donne ed era stata in gioventù studentessa di lingua russa. Si deve soprattutto alla sua curiosità e sensibilità se nacquero forti amicizie con tanti artisti e vi fu un’adesione partecipe all’opera loro: grazie alle sue predilezioni estetiche venne formando, con acquisti e omaggi degli autori, una singolare collezione di quadri e sculture che oggi custodisce e rispecchia una autentica immagine dell’anima russa e un ritratto dell’homo sovieticus negli anni in cui le grandi narrazioni ideologiche svanivano e, al di là del dramma della storia, si riscopriva la radice umana, il valore della persona e della sua vicenda esistenziale.
Un posto centrale occupa nella raccolta la fantasia minimale e trasfigurante di Tyšler (1898-1980) che Laura Boffa ricorda così: “Lili Brik ci fece conoscere Aleksadr Tyšler. Erano molto amici. Quando nel 1937 venne fucilato il suo nuovo compagno Vassilij Primakov, uno dei generali della famosa ‘purga’, Tyšler si recava da lei ogni giorno e se ne stava in silenzio a disegnare… Lili me ne ha regalati alcuni… Poi diventammo amici. Ho comprato i due quadri con le figure femminili in tempi diversi. Dalla prima, ‘Cariatide’, all’inizio non voleva separarsi poiché rappresentava per lui un periodo molto importante. La seconda, ‘Ragazza con fiori in testa’, l’ho scelta un anno dopo insieme ad Antonello Trombadori, che avevo introdotto nell’atelier del pittore”.
Si intitola con efficacia “Piccola Russia” il bel catalogo della collezione, curato da Massimo Boffa, e appena pubblicato dall’editore Maretti con una settantina di opere (quadri, sculture, disegni e incisioni) che delineano un nitido profilo della pregevole raccolta. L’aggettivo “piccola” non deve però essere preso alla lettera: non si tratta di una presentazione d’arte dal carattere minore né tantomeno dalle succinte dimensioni; è piuttosto l’attributo affettivo di un modo di vedere (la piccola e cara Russia) vicino alle preferenze degli autori della collezione, quasi a suggerire un mondo più raccolto, da “lessico familiare”, che rende bene l’immagine di tante microstorie inserite nel fiume possente della storia russa e ne colorisce la permanenza di un convincente riflesso estetico.
Si avverte nelle figurazioni dei diversi autori prescelti (diversi tra loro secondo i tempi, la storia, lo stile) una tonalità sentimentale ravvicinata che sottolinea liricamente un filo comune narrativo e caratteriale: dagli interni con tavole modestamente imbandite, ai casolari periferici, ai vicoli di città, ai paesaggi, alle basiliche innevate, alle isbe contadine, più o meno trasfigurate da manipolazioni della fantasia, emerge tutto l’immaginario della “Madre Russia” che si rivela con discrezione a se stessa come inattesa radice poetica di comuni e universali strumenti umani.
Così il “lessico familiare”, presentato quasi in veste da camera dalla collezione Boffa, offre uno sguardo in profondità dai tratti originali, poiché si sofferma in una sorta di pausa intimista che scorre, quale fiume carsico quasi indifferente, accanto allo strepitare delle avanguardie futuriste e alle chiusure prescrittive del realismo socialista lungo tutto l’arco del “secolo breve”. E’ il percorso di un 900 artistico che cerca di recuperare e mantenere vivo il flusso di coscienza e qualche brano della dimensione umana, vuoi con i rilievi della trasfigurazione fantastica, vuoi con i toni crepuscolari di un immaginario velato da allusività metaforiche.
Da alcuni maestri del simbolismo o del postimpressionismo degli anni Venti e Trenta, come Petr Kuznetsov, Robert Fal’k, Aleksandr Drevin (fucilato nel 1938, riabilitato nel 1957) la collezione Boffa passa alla più nutrita schiera dei “Šestidesiatniki” (gli artisti contestatori dei primi anni Sessanta) dove emergono tra gli altri le figure di Boris Birger, Ernst Neizvestny, Natalia Egoršina, Vladimir Nemuchin, Lidja Masterkova e soprattutto di Oskar Rabin, artista “non conformista” che venne alla ribalta dell’informazione nel 1974 per avere organizzato una esposizione di contestatori nella foresta di Beljaevo, dispersa dalle autorità con l’invio di bulldozer. Sono quasi tutti autori nei quali si sente una originale combinazione degli stilemi delle prime avanguardie russe (primitivismo, realismo espressionista, astrazione e informale); in genere avevano fatto parte del Partito comunista partecipando alle ansie di riforma suscitate da Kruscev, e avevano coltivato la speranza illusoria di una libertà di espressione e di pensiero politico che non venne mai. Negli anni della disillusione e della presidenza grigia di Leonid Brežnev molti di loro si spinsero su posizioni di radicale e aperto dissenso. Non pochi espatriarono a Parigi, New York, Bonn, Firenze. Altri finirono nelle azioni estetiche underground di contestazione politica anti-sistema degli anni Settanta.
Sono quasi tutti artisti che avevano coltivato la speranza illusoria di una libertà di espressione e di pensiero politico. Una pausa intimista accanto allo strepitare delle avanguardie futuriste e alle chiusure prescrittive del realismo socialista
Il resto è storia abbastanza nota, sebbene ancora poco esplorata per la malcerta conoscenza che sulla vita e sviluppo dell’arte visiva in Russia si ha in Europa e particolarmente in Italia. Viktor Misiano, autore di una puntuale e acuta riflessione sui meriti e sulle circostanze storiche che qualificano la collezione di Laura e Giuseppe Boffa, mette bene in evidenza come questa non sia stata il risultato di una fredda ricognizione su tutto il panorama dell’arte visiva nella Urss degli anni Sessanta, ma sia bensì l’esito di una precisa selezione di gusto e di orientamento culturale.
La limitata presenza di Nikolaj Andronov quale rappresentante del cosiddetto “stile severo” (contrapposto all’arte coeva del “disgelo”, più spensierata e incline al culto idillico della natura) indica un indirizzo coerente della raccolta che, per altro verso, esclude anche i rappresentanti del “concettualismo moscovita” emersi alla fine degli anni Sessanta (i Kabakov, i Bulatov, gli Jankilievsky) che muovevano da una ironia dissacrante e misantropica in opposizione anch’essa al levigato estetismo del “disgelo”.
Tassello estetico di un più vasto mosaico di esperienze culturali, la collezione di Laura e Beppe Boffa è tanto più preziosa in quanto testimone coerente di un’epoca e delle sue aspirazioni di fondo: “C’è molto del loro gusto sobrio ed elegante”, fa osservare il figlio Massimo, “ma soprattutto c’è la testimonianza di una intensa esperienza di vita, di una adesione culturale, politica e perfino sentimentale alle vicende della Russia post-rivoluzionaria, che così tanto ha contato nelle loro biografie”. E non solo nelle loro.