Ammirare El Greco a Parigi
Le sue mani, i suoi cardinali, il suo senso del peccato incandescente. E riscoprire pure il grande Maurice Barrès
Come scrive nel suo italiano perfetto e sensuale Anna Ottani Cavina (Una panchina a Manhattan, Adelphi), le grandi mostre hanno subìto nei decenni uno slittamento dalla storia dell’arte e del gusto alla storia dell’evento turistico. Poco male, si dirà con affettazione cinica, visto che la maggioranza di noi è turistica, affezionata o no che sia all’eventismo affollato. Si rilevano eccezioni, come la mostra appena aperta al Grand Palais sul caso El Greco, Le Greco per i francesi.
Il caso è semplice: El Greco tutti lo riconoscono da lontano, è molto amato ma apparentemente per cattive ragioni devozionali (in senso religioso e artistico). A tutta prima sembra un pittore febbricitante e sciatto, un mistico da santino controriformista, un Tintoretto che esagera e sbava come nel Ritrovamento del corpo di San Marco a Brera. Gli fu diagnosticato da esperti l’astigmatismo ipermetrope che allunga e secca figure e proporzioni, facendo traballare il suo mondo visivo e il nostro, e forse il suo Ego psichico, ma a guardare bene questo cretese-bizantino nato a metà del Cinquecento e morto agli inizi del secolo successivo, tra Rinascimento e Barocco, è quel sublime Pintor senza il quale Goya e Picasso non sarebbero stati quel che sono, e Velázquez appare il più grande del Siglo de Oro ma non il più intenso. Il grande astigmatico aveva mutuato dalle icone, dalla Venezia di Tiziano e dalla Roma di Michelangelo e Raffaello, qualcosa che si è portato nella mirabile città di Toledo, dove la tristezza è bellezza e rassegnazione all’eterno (Maurice Barrès). Voleva sprezzantemente ripittare la Sistina, vaste programme, perché secondo lui Michelangelo disegnava complessi statuari senza saperli dipingere, ed è finito con l’universalizzare e dogmatizzare la spiritualità castigliana, cioè il mondo di Cervantes e di Don Chisciotte. Sul Ronzinante della sua patologica ispirazione cattolica, ha reinventato l’immagine in un momento cruciale della sua crisi e su questa invenzione ha infinitamente variato e ripetuto una cosa che è lo stile (lo scrive il geniale Guillaume Kientz, curatore della mostra), cavalcando i secoli e inducendo i successori moderni, consapevoli del precetto eliotiano (i poeti immaturi imitano, quelli maturi copiano) a farne talvolta proprio un calco.
Come caso, non c’è male. E i francesi, che contribuirono forte alla riscoperta del maestro alla fine dell’Ottocento e ai primi del secolo scorso, di queste singolarità artistiche e culturali sono esperti suscitatori e amministratori. Questa volta si sono associati all’Art Institute di Chicago, e hanno offerto pareti alte e bianche e luci perfette per ospitare ad anello un bel po’ delle tante meravigliose opere del Greco, le sue mani, i suoi cardinali, i suoi amici, suo figlio, i suoi Cristo e le sue Maria Vergine, il suo senso del peccato incandescente, il suo divino senso della sproporzione, in uno scrigno adogmatico che sa di mostra d’arte moderna e contemporanea. Effetto da sballo. Ben trovato. Una genialata.
Maurice Barrès, questo grande scrittore cattolico tra Otto e Novecento stupidamente obliterato dai contemporanei, amava tutto del Greco: il suo tono plumbeo, livido, una specie di tentativo in bianco e nero combinato con l’iridescenza tizianesca e tintorettiana. Barrès amava la sua capacità di deformazione cervantina, croci come mulini a vento, conti e duchi seppelliti nel silenzio sotto la propria anima come l’incredibile nobiluomo Orgaz della chiesa toledana, amava in una formula quel che secondo lui in greco moderno significava il suo vero nome Theotokópoulos (uccello incinto di Dio). (segue a pagina due)
Gli porse un saggio del 1919, con marginalia del 1923, che è un capolavoro toledano della letteratura di viaggio e un omaggio alla maestria del Greco, visto come un mozarabo nella sua fortezza di granito fitta di chiese e conventi e conventicole, un cristiano orientale mezzo andaluso e mezzo castigliano, un saggio dedicato nientemeno a Robert de Montesquiou, il celebre des Esseintes di Huysmans e baron de Charlus nella Recherche. La mostra di Guillaume Kientz voleva un po’ disfarsi di questa interpretazione retrodatata, in favore di uno sguardo strutturale e segnico meno lirico e meno religioso-controriformista, meno novecentista. Ci è riuscito, ma senza strafare. Infatti ha messo in copertina del catalogo le mani, il vero capolavoro del Greco in tutte le sue opere. E Barrès riportava questo giudizio di Unamuno, “che ha sulle mani una vista sottile e devota degna del genio singolare che celebra”, nei suoi marginalia: “Le mani sole parlano. Le mani, in generale, sono quel che vi è di più eloquente in quest’arte strana. Il Greco è uno di quei rari artisti che ci insegnano la nobile lezione che le mani sono molto più rivelatrici delle parole…”.