La nostra èra oscura, risucchiata dalla Nuvola del “pensiero computazionale”
La tesi centrale del saggio di James Bridle è che le tecnologie digitali avrebbero dovuto illuminare il mondo portando a compimento l’idea illuministica di progresso-sviluppo, mentre invece l’hanno fatto precipitare in un pozzo oscuro
Non siamo certo noi italiani a capire meglio e per primi i fenomeni naturali, ambientali e climatici. Siamo convinti che “chesto è ’o paese do’ sole, chesto è o’ paese do’ mare", da sempre e per sempre. A Napoli c’è ancora chi crede che “l’aria di Napoli” guarisce e fa stare bene. E in ogni italiano c’è una notevole, prevalente quota di pessimistico ottimismo napoletano: pessimistico (il mondo è quello che è, nessuno lo può cambiare) e ottimismo (a Napoli, in Italia noi abbiamo il sole e il sole ci salva, salva solo noi, senza chiederci nessuno sforzo). Ma oltre che avere il sole, divinità che ci predilige, ci vezzeggia e ci vizia come un sovrano buono, noi siamo anche un paese di carente cultura scientifica. Non osserviamo e non amiamo la natura perché siamo convinti che sia la natura ad amare noi. Non abbiamo voglia di ascoltare il nostro maggiore poeta e filosofo moderno, Giacomo Leopardi, per il quale la natura è più matrigna che madre e Napoli è il luogo del Vesuvio, sterminatore di esseri umani.
Nel nord Europa le cose vanno diversamente. La culla della modernità naturalistica, scientifica, tecnica e industriale, l'Inghilterra, la patria di Isaac Newton e di Charles Darwin, è anche la patria dei più geniali e pessimisti critici del progresso tecnico e della società industriale, della “civiltà delle macchine” e dell'avvelenamento degli ambienti naturali. Da Jonathan Swift a John Ruskin, Aldous Huxley e George Orwell, i satirici, i moralisti, i profeti di sventura lassù, fra Mare del Nord e Oceano Atlantico, non sono mai mancati. Sebbene il nostro Leopardi considerasse gli inglesi “i meridionali del nord” ( e i francesi i settentrionali del sud) è proprio a loro che dobbiamo il maggior numero di invenzioni che hanno portato a quella che noi chiamiamo (con inflessibile soddisfazione) società e vita moderna. Hanno però anche prodotto non pochi critici della modernità e tuttora, dalle pagine del Guardian e dell’Observer, ne arrivano di nuovi.
La casa editrice Nero (Roma, Lungotevere degli Artigiani 8b) che si sta specializzando nella scoperta di critici radicali del presente, in prevalenza inglesi e americani, a volte buoni e a volte meno buoni, pubblica ora un libro di James Bridle, esperto di tecnologie oltre che scrittore, artista e giornalista: il titolo, in evidente polemica con le rosee prospettive New Age, è “New Dark Age. Technology and the End of the Future” (in italiano “Nuova èra oscura”, pp. 298, euro 20).
Non ho ben capito per quale ragione, ma tutti i titoli dei dieci capitoli cominciano con la stessa lettera e si va da “Computazione” a “Cloud”, da “Clima” a “Concorrenza”, da “Complotto a Calcolo”, a Complessità”… La tesi centrale del libro è che Internet, la rete e le tecnologie digitali avrebbero dovuto illuminare il mondo portando a compimento l’idea illuministica di progresso-sviluppo, mentre invece l’hanno fatto precipitare in un pozzo oscuro nel quale prosperano e ribollono sorveglianza di massa, teorie del complotto, crisi della capacità di pensare, catastrofe ambientale, fake news, crack finanziari, colonizzazione neurocognitiva dell’infanzia (nonché, mi pare, della giovinezza, della maturità e della senilità). Quando i politologi parlano di crisi della democrazia (un tema bibliograficamente esteso fino all’inverosimile) trascurano di solito che la libertà di pensiero e di scelta, di cui sarebbe dotato per principio il cittadino delle liberaldemocrazie, è una favola a cui dobbiamo credere, ma resta una favola.
Secondo Bridle l’ideologia oggi dominante è il “pensiero computazionale” o “soluzionismo”, creato nelle nostre teste dall’uso di tecnologie digitali che ci fanno credere che qualunque problema possa essere risolto solo grazie al calcolo: ma così si accetta che il mondo sia “irrevocabilmente modellato dalla computazione”.
La Grande Macchina, o cloud, comunque non è solo immateriale, come a volte sembra, è proprio un mega-oggetto esistente nello spazio: si tratta di “un’infrastruttura fisica composta di linee telefoniche, fibre ottiche, satelliti, cavi sul fondo dell’oceano e giganteschi magazzini pieni zeppi di computer che consumano quantità ingenti di acqua e di energia, e che dal punto di vista legale fanno capo a giurisdizioni nazionali. Quella del cloud è un nuovo tipo di industria ed è un’industria particolarmente famelica. Sono state assorbite dal cloud molte delle vecchie e pesanti strutture della sfera civica: i luoghi nei quali facciamo compere, accendiamo i nostri conti correnti, socializziamo, prendiamo in prestito libri e votiamo. Occultati in questo modo, i luoghi si rendono meno visibili sottraendosi così a critiche, indagini, tentativi di regolamentazione”. Il singolo viene espropriato di molte cose che credeva sue: “Gran parte delle tue email, delle tue foto, dei tuoi aggiornamenti di status e documenti di lavoro, la tua libreria, i tuoi dati elettorali, le cartelle cliniche, l’affidabilità creditizia, i like, i ricordi, le esperienze, i tuoi gusti personali e i desideri più reconditi, è tutto nel cloud, in una infrastruttura che non ti appartiene”. Chi vuole saperne e capirne di più, legga il libro.
Ma chi si sentirà a disagio in questa buia visione del mondo risucchiato nella Nuvola, potrà dare un’occhiata all’inizio del secondo capitolo (pp. 27-28) in cui si parla di una serie di lezioni che il grande critico d’arte e della civiltà John Ruskin tenne a Londra nel 1884, intitolate “La nube tempestosa del XIX secolo”. Su Ruskin si è tenuto a Venezia un convegno una settimana fa e sulle capacità scientifico-visionarie e socio-moralistiche di questo autore amatissimo da Tolstoj, non ci sono dubbi. Ruskin parlò della comparsa, nel cielo inglese, un cielo industriale, di un nuovo fenomeno nuvoloso mai visto in passato: “Non ne esistono descrizioni in nulla che io abbia letto negli osservatori antichi. Né Omero né Virgilio, né Aristofane né Orazio fanno menzione di tali nubi. Chauser non le cita mai, né Dante; nessuna neanche in Milton […] Il cielo è coperto da una nube grigia – non una nube foriera di pioggia bensì un velo grigio e secco che nessun raggio di sole può perforare […] eppure è priva di reale sostanza, di un contorno definito, o di un vero e proprio colore. E’ una novità per me, una novità che mi terrorizza”.
Era lo smog… O forse era già il vento che annunciava una futura èra oscura, che ora James Bridle cerca di spiegarci.