Il genio dell'eros
La vita spericolata di Julien Green nei suoi diari incensurati e inediti. Dall’amore per i ragazzini fino alla deriva dei sentimenti e delle idee
Immaginate di poter entrare nel cervello e nelle viscere di un grande scrittore del Novecento, di seguirlo giorno per giorno nei suoi pensieri più scabrosi, nelle sue pulsioni indicibili, di condividerne le inquietudini, i dubbi lancinanti, i tormenti, la segreta perversione. Immaginate di osservare in presa diretta la vita interiore di un genio del Novecento, di penetrarne l’inconscio e di smontarne la meccanica del desiderio. Essendo un grande scrittore cattolico, che per ritrarsi dal vero si mette in gioco senza pietà, avrete accesso non solo a quello che ha detto e ha scritto, posando senza veli, sempre nudo e a tutto tondo, ma riuscirete a ricostruire quello che ha fatto, vissuto e sognato sia in senso letterale, dormendo di notte, sia in senso figurato, inseguendo di giorno i propri sogni a occhi aperti per cercare di adescare uno sconosciuto vestito da marinaretto.
Ora abbiamo a disposizione la versione integrale di un racconto senza veli e in presa diretta della vita spericolata del grande scrittore
L’esperienza è a portata di mano, anche se andrebbe raccomandata solo a quei lettori smagati, capaci di saltare agevolmente dal primo al secondo registro di una confessione ai limiti dell’osceno, fondata sulla verità a oltranza, senza scomporsi per gli aspetti scabrosi, feroci, violenti e per un’assenza di freni inibitori così pervicace da sfiorare la pornografia. E’ infatti uscita in Francia la versione integrale del diario di Julien Green (Journal intégral t.1, 1919-1940, a cura di Guillaume Fau, Alexandre de Vitry, Tristan de Lafond. “Bouquins” Robert Laffont, 1.352 pp., 32 euro) ed è un avvenimento. Finalmente, dopo che per decenni è circolata l’edizione curata dall’autore stesso, con tagli e censure dettati dalla pietà verso i contemporanei, adesso abbiamo a disposizione la versione completa del testo originale e finora inedito, un racconto senza veli e in presa diretta della sua vita spericolata. Non un giorno, un mese, un anno, ma ottant’anni di avventure, pensieri, opere, omissioni, registrati quasi ininterrottamente da Julien Green tra il 1919 e il 1998, confessando per filo e per segno i suoi desideri reconditi, restituendo i suoi impulsi con maniacale sincerità, descrivendo le sue debolezze con compiaciuto candore, spiattellando le avventure omoerotiche, i rapporti accidentali con giovanotti rimorchiati per strada, la frequentazione compulsiva di bordelli e bagni pubblici, ma anche il legame con l’amico del cuore come Robert de Saint Jean, finora protetto dalla discrezione (“Cosa sarei senza di lui? Probabilmente infelice, di sicuro molto più cattivo, come un giovane infelice che vive inseguendo il suo desiderio senza mai soddisfarlo”). E soprattutto i rapporti con i grandi scrittori contemporanei, suoi amici e mentori come André Gide e Roger Martin du Gard. Il primo, in vena di confidenze, gli confessa la tristezza di non riuscire a piacere: “Vengono a letto con me per compiacenza. Certo, ho avuto delle avventure meravigliose, ma ora ho dei rimorsi, per tutte quelle che ho trascurato”. Il secondo, bollato per sempre come “un altro povero vecchio che si è iniziato alle gioie della pederastia mettendosi a inseguire i ragazzini”, è però molto attento, e si preoccupa di sapere se Green, a scrivere indiscrezioni, non abbia paura di fare del male. Su tutti spicca Jacques Cocteau, il gagliardo, il geniale scrittore, che s’è visto rifiutare dalla “Revue de Paris” la pubblicazione di un romanzo d’amore tra ragazzi, e dopo aver letto le bozze del diario di Green, invoca tatto e discrezione raccomandandogli: “per favore non mi rimpicciolire, è tutto quello che ti chiedo”.
Julien Green racconta insomma senza pudore se stesso e l’ambiente letterario parigino. Batte senza pietà il tasto della vita sessuale, confessa con voluttà gusti e perversioni suoi e degli altri, quasi a sfidare se stesso pur di inseguire una sorta di catarsi liberatoria attraverso la scrittura. La carne infatti ha le sue ragioni e lo spirito non le può ignorare: “Tout ce que je vois charnellement, je le vois par rapport au spirituel”, scrive il 18 febbraio 1920. All’epoca, Green era ancora giovanissimo, ma sapeva perfettamente quello che faceva. Aveva cominciato a scrivere il diario l’anno prima, con frammenti e note sparse, per poi redigerlo in modo sistematico solo a partire dal 1926, ma già allora gli era chiarissimo che non intendeva riportare “osservazioni imbecilli e comuni dell’ambiente”; al contrario, voleva fermare sulla carta la sua vita che per lui coincideva in toto con la sua attività intellettuale. “Io godo sempre meno sul piano sensuale, anzi non sono quasi più attratto dal piacere sensuale, anche se lo trovo piacevole quando mi si presenta; ma il fatto è che non lo cerco affatto. Ho la concupiscenza dei libri. Tutto quello che capisco sul piano carnale, lo capisco in rapporto alla dimensione spirituale. Il viso più bello che non suscita in me un’idea chiara smette di esistere ai miei occhi, e io divento cieco”.
“Godo sempre meno sul piano sensuale, anzi non sono quasi più attratto dal piacere sensuale. Ho la concupiscenza dei libri”
Americano di origine ma parigino di nascita, figlio di una famiglia sudista originaria della Virginia, nato protestante e convertito al cattolicesimo, devotissimo ma a corrente alternata, tanto da passare da una precoce vocazione adolescenziale al distacco dalla pratica religiosa – salvo ritrovare la fede negli anni della maturità – cattolico e omosessuale, sempre in bilico tra l’amore platonico e la débauche più sfrenata, grande scrittore e grandissimo esteta: Green visse tutta la sua vita diviso tra l’esaltazione della grazia e il richiamo brutale dei sensi. Innamorato di san Francesco d’Assisi tanto da dedicargli una meraviglia biografia, e da sognare persino di scrivere un libro dedicato alla Vergine Maria, è l’autore di un infinito numero di romanzi, e fu persino in odore di Nobel. Entra all’Académie française nel 1971 al posto dell’altro grande romanziere cattolico François Mauriac ( “uno dei più mediocri dello spaventoso ambiente letterario parigino”, osserverà nel suo diario, ricordando come Mauriac si fosse addirittura “scandalizzato” dalla frase di Maeterlink “Se fossi Dio, avrei pietà del cuore umano” scelta da Green per la fascetta del suo romanzo Leviathan). Vent’anni dopo si dimette per protesta dall’Académie (“sono esclusivamente americano e gli onori non mi interessano”), pur rappresentando il modello impareggiabile di una prosa classica, latina, col suo francese terso, trasparente, sovrano, liscio come un mare piatto, che però s’increspa all’improvviso per le correnti invisibili che l’attraversano come le passioni più torbide del Novecento, e cioè il sesso, la morte, il nichilismo, la ricerca di una gloria impossibile e la solitudine delle creature umane, lacerate tra una vocazione metafisica impraticabile e la frustrazione sessuale. “Dio mio, concedetemi di sottomettere all’impero della mia ragione quest’amore disordinato della bellezza carnale”, scrive Green nel luglio 1920, quando è ancora tutto assorto nella riflessione pascaliana sul contrasto tra l’amore divino e la finitezza dell’uomo.
Eccolo allora interrogarsi sulle passioni e sul senso di civiltà che sembra compromesso da quando l’uomo ha smarrito l’attenzione alla vita interiore. Eccolo abbandonarsi a poco a poco alla deriva dei sentimenti e delle idee. “Dopo la carestia, la sazietà. Ho talmente sofferto di privazione sessuale nella mia prima giovinezza che volevo morire. Oggi, tutto quello che sognavo è a portata di mano, ma dove sono i miei vent’anni?”, scrive il sabato 24 ottobre 1931. Ma solo oggi grazie a quest’edizione integrale del Diario di Green sappiamo che il sogno a portata di mano dello scrittore cattolico era una star delle Folies Bergères, alias Féral Benga, danzatore senegalese dal corpo misterioso e minuto, che lo faceva letteralmente impazzire: “Espérons qu’il me sucera bien; sa bouche est des plus adroites, j’en conviens, mais c’est par son trou du cul que je voudrais me faire sucer la pine. Ce prodigieux derrière dot être agréable à percer”.
Nato protestante e convertito al cattolicesimo, Green vive la sua vita diviso tra l’esaltazione della grazia e il richiamo brutale dei sensi
Green descrive dunque senza pudore non solo i suoi desideri ma le sue prede; entra a viso aperto nel mondo sotterraneo e segreto della lascivia omoerotica, fatto, in epoca di Gay pride ancora sconosciuto, di alberghi pulciosi, parchi, bordelli, bagni pubblici, spiagge, dove il rimorchio è immediato, perché basta uno sguardo, un’occhiata furtiva lanciata all’ingresso della stazione di metrò, come quella del biondino dagli occhi azzurri con le mani in tasca incrociato una sera al Trocadéro, perché “l’opération” tra perfetti sconosciuti si consumi su un taxi “con tutta la passione di cui mesi di astinenza (mi) rendevano capace”. A provarci con lui sono militari, marinai, ma anche zingari, arabi, parassiti mondani come Jean Desbordes, l’amante di Cocteau: “Viene al mio tavolo e si fa pagare il pranzo. Vera puttana. Si finge ubriaco. Ho la vaga impressione che voglia farsi scopare… malgrado i suoi begli occhi, non me lo fa venire duro”. E ci sono soprattutto i ragazzini, visto che i pedofili all’epoca abbondano e in perfetta impunità. Il 29 marzo 1933, Julien Green racconta per esempio del figlio di Thomas Mann, che lo va a trovare e gli confessa i suoi gusti: “Mi ha detto che a lui piacciono di tutte le età, tra i dieci e i quarant’anni. ‘Io inizierei più tardi e finirei prima’ gli ho risposto. Ma Klaus Mann non trova niente di più commovente delle spalle strette di un ragazzino di dodici anni. ‘Per gusto mio, gli ho detto io, sono sufficientemente commoventi le spalle di un bel marinaio vigoroso!’. Per una o due volte mi è sfiorata la voglia di palpeggiarlo, ma ha un viso così disgraziato che resisto vittoriosamente. Il suo grugno febbricitante mi ripugna”. Al culmine della sua vita sessuale, il 7 maggio 1937, Green ammetterà: “Un uomo sessualmente infelice non può dirsi felice”. Salvo poi registrare, all’inizio degli anni 40, un senso di stanchezza e disgusto di sé, e avvertire l’angoscia della malattia e della morte.
Il diario è una strada per ritrovarsi cristiano e uomo di fede, facendo i conti innanzitutto con se stesso, confessando i peccati
Ma perché dire tutto e scrivere persino l’indicibile? Tenere un diario per lui significava obbedire all’istinto di sopravvivenza. Era un gesto dettato dalla necessità vitale, che equivaleva a salvare il salvabile della sua vita. Diversamente dall’inglese Samuel Pepys, il diarista e politico che alla fine del Seicento scriveva solo per il piacere di raccontare, Julien Green obbediva nel Novecento al desiderio egotico, a lui stesso incomprensibile, di fermare il passato: voleva “ripescare quel vecchio relitto gigantesco, che invano cerchiamo di riportare in salvo, come un sottomarino andato a picco”. Registrare tutto quello che faceva, pensava, scriveva e viveva ogni giorno era, per lui, non solo un modo di approfondire la conoscenza di sé, secondo la gloriosa tradizione inaugurata da Montaigne, ma una strada per ritrovare se stesso come cristiano e come uomo di fede, facendo i conti innanzitutto con il proprio io, mettendosi a nudo anima e corpo, confessando i suoi peccati, praticando cristianamente lo scandalo della verità, rivelandosi a oltranza, prima di rendere conto al creatore di quanto aveva ricevuto in dono e di quanto aveva dato agli altri. E’ per questo che non solo scrisse per tutta la vita un diario interrotto, ma lo conservò, resistendo alla tentazione di bruciare tutto, spedendolo da un paese all’altro per salvarlo dalla distruzione, e finendo per metterlo al riparo in Svizzera negli anni della guerra. Un bel giorno, forse al colmo della felicità, decise persino di pubblicarlo, non in una tiratura limitata a dieci-venti copie e riservata a pochi amici sicuri, come gli suggeriva André Gide, e nemmeno con le precauzioni proposte da Roger Martin du Gard che l’invitava a censurare almeno i nomi propri. Macché. A partire dal 1938 iniziò a sfornare vari volumi del suo diario intimo, prima con l’editore Plon e dal 1975 con Gallimard nella Bibliothèque de la Pléiade. Per farlo però, decise innanzitutto di emendare il manoscritto, sottoponendolo a violenti tagli, infliggendo cancellature ostinate e censure feroci su pagine e pagine, per sopprimere i dettagli più scabrosi della vita sua e degli altri “invertiti” amici suoi, come pure le indiscrezioni sui gusti e le abitudini di coppia fra gli omosessuali parigini, in balìa all’ossessione della gonorrea e di altre malattie veneree. “I nove decimi di questo diario sono occupati da descrizioni di piaceri carnali”, scriveva il 4 febbraio 1935. Eppure, nonostante tutto, Green era consapevole del valore di quel diario: “In quei momenti, questi quaderni grigi corrono un grande pericolo, ma avrei torto a distruggerli, perché presentano un’ esperienza di vita che molti esseri umani non hanno conosciuto. E un giorno potranno istruire, forse servire. Contengono anche molte informazioni sulla vita letteraria, che non si troveranno da nessun altra parte”. Dunque, Julien Green coltivò sino alla fine il desiderio di fare pubblicare un giorno, magari dai suoi eredi, la versione integrale di quel diario impubblicabile mentre lui era in vita. Lo considerava come “una bottiglia lanciata in mare”, che magari sarebbe finita in balia di un incidente banale. “Dopo la mia morte, dei pietosi babbei possono metterci la mano sopra e gettarlo al fuoco (non senza averlo prima letto). Raggiungerà mai gli ultimi anni di questo secolo?” si domandava il 5 ottobre 1931. Non poteva immaginare che per volontà del suo figlio adottivo la pietosa mano dell’ultimo erede e amico di famiglia, Tristan de Lafond, avrebbe attinto alle centinaia di quaderni autografi conservati alla Bibliothèque Nationale per preparare questa meticolosa edizione. E’ così che il suo diario è riuscito a superare l’inizio del XXI per riapparire oggi come nuovo, senza mostrare nemmeno una ruga.