L'ipocrita campagna per togliere il Nobel a Handke
La “tirannia della virtù” ci impedisce di separare chi fa arte dalle sue opinioni politiche. Ma a Grass, Saramago, Pinter e agli altri “compagni di strada” viene invece dato un salvacondotto morale
Roma. “Il Bob Dylan degli apologeti del genocidio” (New York Times). “Perché dare il Nobel a chi ha celebrato un criminale di guerra?” (Washington Post). “Questo Nobel è una celebrazione della violenza” (The Nation). Indignato il Pen America: la presidente Jennifer Egan si è detta “esterrefatta”. Sul Nobel per la Letteratura all’austriaco Peter Handke, che nella guerra dei Balcani parteggiò per i serbi, è dovuta intervenire l’Accademia svedese che assegna il premio. Due membri, Mats Malm e Erik M. Runesson, pur difendendo la scelta, hanno ammesso che Handke ha fatto “dichiarazioni politiche provocatorie e inappropriate”. Meno intimidito Henrik Petersen, anche lui membro del comitato del Nobel: “Proprio come Samuel Beckett, fra cinquant’anni Handke sarà visto come tra le scelte più ovvie che l’Accademia svedese potesse fare, ne sono certo”. C’è chi, come Nora Bossong sulla Taz tedesca, ricorda: “Il genocidio in Ruanda è stato condotto sotto gli occhi delle forze di pace delle Nazioni Unite. Il fallimento dei Caschi Blu fu ripetuto l’anno dopo a Srebrenica. A New York il responsabile si chiamava Kofi Annan, che avrebbe ricevuto il Nobel per la Pace e che a lungo è stato considerato l’incarnazione perfetta degli ideali delle Nazioni Unite”.
A sollevare l’ipocrisia degli attacchi a Handke è stato Bret Stephens, che dalle colonne del New York Times scrive: “Handke è considerato un fascista (anche se le sue opinioni politiche sono poco chiare), mentre Pinter, Grass e gli altri erano tutti di sinistra. Dopo la morte di Saramago, il Pen lo ha celebrato senza menzionare il suo passato”. Inoltre, l’indignazione su Handke fa parte di un nuovo moto ondoso nella cultura occidentale, quella “tirannia della virtù” che ci impedisce da tempo di separare chi fa arte dalle sue opinioni politiche. Ci sarà anche il fatto che Handke, come un altro Nobel prima di lui, V.S. Naipaul, si è messo contro il mondo islamico. Sarà anche che, come ha scritto il critico letterario tedesco Denis Scheck, col Nobel a Handke “il politicamente corretto ha ricevuto uno schiaffo”. E qui tornano utili i “compagni di strada” citati da Stephens.
Come Günter Grass, il Nobel vate dell’antifascismo tedesco dal passato nelle Waffen SS, in cui Grass servì con entusiasmo (“Ero certo che fosse una guerra giusta”). Lo stesso si può dire di Dario Fo, un altro Nobel in camicia nera. Ma nessuno ha mai invocato la revoca del loro blasone letterario. O quello di José Saramago, che dopo la rivoluzione dei garofani del 1974 divenne vicedirettore del quotidiano di sinistra Diário de Nóticias. Come avrebbe rivelato il Wall Street Journal, Saramago “supervisionò le epurazioni dei cosiddetti ‘elementi fascisti’ dai media portoghesi. Ventidue giornalisti furono licenziati”. Nessuno ne ha mai chiesto conto a Saramago, è pur sempre il grande scrittore de “L’anno della morte di Ricardo Reis”. Come nessuno ha mai messo in discussione un altro Nobel, Gabriel García Márquez, che lo studioso spagnolo Angel Esteban e la belga Stéphanie Panichelli hanno accusato di “aver sempre negato l’esistenza della tortura” nel socialismo caraibico, la Cuba di Castro (Mario Vargas Llosa ha definito il collega Nobel “il cortigiano di Castro”).
E andando a ritroso si può arrivare al Nobel Pablo Neruda, “il postino” che scriveva omaggi a Vyshinsky, il procuratore che orchestrò i processi staliniani di Mosca, e che definì un “chiacchiericcio” la notizia secondo cui in Unione sovietica gli scrittori finissero nei gulag. Ma conviene restare all’attualità. A Harold Pinter, per esempio, un altro Nobel. “Free Milosevic, says Pinter”, fu l’appello che il drammaturgo inglese lanciò sul Guardian due anni prima del Nobel. Ma si sa, quando si fa parte del famoso “album di famiglia”, quello giusto di Pinter e non di Handke, si può tutto. Anche perorare la liberazione di un criminale di guerra come Milosevic. Specie se lo si fa in nome della “pace”.