Chi vive di cultura non può che sentirsi un po' ebreo senza esserlo
Il senso storico è oggi minacciato nella mentalità diffusa
Un mio giovane amico, un ebreo ventenne, un ragazzo straordinario la cui intelligenza, sensibilità e cultura sono una consolazione in un mondo che naviga verso le varie, epidemiche forme nuove di stupidità, ignoranza o conformismo acculturato, un paio di giorni fa mi ha fatto una domanda inaspettata: “Che cosa ti viene subito in mente, anche senza pensarci, quando vieni a sapere che qualcuno è un ebreo?”.
La risposta che il mio giovane amico voleva non era una riflessione, ma la focalizzazione immediata di un istinto, la prima, irriflessa associazione di idee. La mia risposta è stata più o meno questa: “Quando so che qualcuno è un ebreo sento anzitutto due cose: la prima è che ho davanti un problema che mi riguarda e riguarda tutti, dato che l’antisemitismo esiste; la seconda è che in quella persona c’è una terza dimensione, qualcosa di ulteriore, una profondità prospettica, un passato, una storia che gli altri italiani non hanno”. Ormai ho quasi sempre l’impressione di avere a che fare solo con individui bidimensionali, nei quali c’è solo il presente; individui in cui la memoria non c’è o non conta; nei quali anche l’eventuale religiosità è piatta, senza radici e senza passato e che quindi non hanno in sé una bussola culturale e morale che li orienti. Anche i loro problemi, cioè, per quanto in sé dolorosi, possono essere gravi, ma sono anche culturalmente banali.
La conversazione naturalmente è continuata e potrà continuare in futuro. Con questo giovane ebreo le conversazioni sono sempre insolitamente lunghe, fantasiose, profonde e umoristiche, nel corso delle quali compaiono verità essenziali e magari ansiogene, che di solito accogliamo scoppiando insieme a ridere. E tutto nasce dalle domande che il mio amico, un po’ allievo e un po’ maieuta, mi fa spesso. Le sue molte domande, giovanilmente socratiche, molto serie e molto discrete, mi costringono a partorire pensieri nuovi e memorie dimenticate. Anche in questo caso siamo andati avanti per più di mezzora. E quindi non potevo che dirgli la solita cosa. Che per me l’ebraismo non è mai stato un problema perché culturalmente (non politicamente) ci sono cresciuto dentro. La mia cultura nasce nell’adolescenza come cultura del Novecento, della modernità; e intorno ai grandi russi del secolo precedente, Dostoevskij, Tolstoj, Puskin, Cechov, per me come per altri sono comparsi subito i molti maestri ebrei del ventesimo secolo: Freud, Kraus, Chaplin e Kafka, Svevo e Saba, Lukacs e Auerbach, Benjamin e Adorno, Loewith e Arendt, Steiner e Bloom, Singer e Kubrick, nonché i miei maestri italiani di gioventù, l’ebreo Giacomo Debenedetti e gli ebrei a metà Franco Fortini e Elsa Morante.
Come la maggior parte di coloro che vivono di cultura, anche io vivo nella condizione, abbastanza comoda, di sentirmi piuttosto ebreo senza esserlo. E’ appena uscito da Donzelli un libro dello storico Sergio Luzzatto intitolato Un popolo come gli altri. Gli ebrei, l’eccezione, la storia. L’autore apre la sua Premessa citando lo scrittore israeliano Amos Oz: “Non è questione di sassi, tribù, cromosomi. Non si ha da essere archeologi, antropologi o genetisti per tracciare e dare corpo al continuum ebraico. Non si ha da essere ebrei osservanti. Neanche ebrei. D’altro canto, neanche antisemiti. Di fatto, basta essere dei lettori”. E Luzzatto aggiunge: “Da quando pochi anni fa ho letto queste parole nel saggio Gli ebrei e le parole, scritto da Amos Oz insieme con una storica di professione (sua figlia Fania), ho capito meglio perché prema anche a me di tracciare e dare corpo al continuum ebraico. Non mi preme da ebreo osservante, e neppure da ebreo tout court. Non mi preme da antisemita, evidentemente. Ma nemmeno mi preme (in fondo) da storico, che pure è il mio mestiere. Mi preme da lettore”.
Avere il senso del passato, avere quel senso storico che oggi è così minacciato nella mentalità diffusa e spesso anche nei professionisti della cultura e negli studiosi, non richiede di essere degli storici di mestiere. Richiede di essere lettori sopratutto di letteratura, il cui linguaggio non è specializzato e riservato a una comunità ristretta come quello delle varie, cosiddette “discipline”, sociologia, psicologia, storia e perfino filosofia. Il senso del passato che tiene insieme vivi e morti, presenti e assenti, ha bisogno della letteratura come storiografia e di lettori capaci di leggerla. E’ come critico, come interprete di testi, come saggista e autore di commenti “sapienziali” alla letteratura che sono per metà ebreo. Il giovane amico che mi fa tante domande si chiama Giacomo Pontremoli e Goffredo Fofi profetizza di lui che sarà il Giacomo Debenedetti del futuro, qualunque cosa questa profezia significhi.