La crisi senza fine dell'intellettuale critico soppiantato dall'energumeno
“La crisi dell’Europa, prima ancora di essere politica, degli stati e delle sue istituzioni, è una crisi dell’uomo”. Le ragioni di Ratzinger e la complessità del mondo
Non ho passato anni a Tahiti, né a Samoa. Ho soltanto trascorso una settimana in un piccolo e tranquillo paese dell’America australe a fare conferenze sull’attuale ruolo degli intellettuali e sul rischioso, oggi coraggioso atto di leggere libri. Essendomi anche concesso sette giorni di vacanza dall’informazione, evitando sia la stampa locale che la Cnn, appena arrivato all’aeroporto di Fiumicino ho fatto però il pieno di riviste e giornali. E in prima pagina sul Foglio di domenica mi è subito caduto l’occhio sul pezzo di Matzuzzi “Esclusiva. Benedetto XVI ci spiega…”.
Cosa ci spiega? Ci spiega una cosa che anni fa poteva sembrare ovvia, mentre oggi e domani sarà sempre di più all’ordine del giorno: “La crisi dell’Europa, prima ancora di essere politica, degli stati e delle sue istituzioni, è una crisi dell’uomo. La crisi è innanzitutto antropologica. Riguarda un uomo che ha perso ogni riferimento di fondo, che non sa più chi è”.
E’ a dir poco interessante che proprio il Papa emerito e dimissionario, il teologo Ratzinger, abbia parlato di uomo e di antropologia come centro della crisi dell’Europa: un continente ormai ben poco cristiano e che dopo il 1945 ha perso anche la grande cultura ebraica che nella prima metà del Novecento era stata il cuore delle scienze, delle arti, della filosofia e degli studi umanistici.
Sembra che oggi in occidente l’umanesimo stia a cuore soprattutto, se non esclusivamente, a chi pensa ancora in termini di tradizione giudaico-cristiana. I laici puri e material-progressisti, i quali credono che uomo e cervello umano non siano altro che macchine o neomacchine biotecniche, fanno sempre più a meno della tradizione culturale. Quando se ne occupano è solo in chiave ministeriale, in termini di “beni immobili”, di “deposito valori”, di opportunità turistico-commerciale, di ornamento estetico. La cultura europea è diventata una coccarda per celebrazioni domenicali.
Tornando dall’aeroporto “Leonardo da Vinci” con tutti quei giornali da sfogliare, avevo ancora in testa le conferenze appena fatte e soprattutto una frase conclusiva: “Quella che Lewis Mumford e Serge Latouche hanno chiamato Megamacchina, cioè società tecnologicamente iperorganizzata, tende a trasformare gli esseri umani in macchine o controllori, servitori e appendici di macchine. Bisogna impedirlo”. Un appello, il mio, piuttosto patetico. Perché la Megamacchina non si muove da sé: a muoverla c’è la necessità indiscussa della crescita economica senza limiti, del controllo e della sicurezza, possibilmente senza limiti. Anzi, tutte queste cose sono una cosa sola.
Così, sazio fino alla nausea sia di aerei claustrofobici e per niente “umanistici” che di aeroporti labirintici ma strapieni di comfort e di impeccabili mercatini, fantasticando di umanità mi è tornato in mente un passo di Paul Valéry (1870-1945), poeta e moralista delle nostre funzioni cognitive, un testo che avevo letto a vent’anni e mai dimenticato. Diceva Valéry: “L’occhio, all’epoca di Ronsard, si accontentava di una candela (…) L’occhio, oggi, reclama venti, cinquanta, cento candele. L’orecchio esige e tollera le più feroci dissonanze, si abitua al tuono, ai sibili, agli stridori, al rombo delle macchine e a volte li vuole ritrovare nella musica dei concerti (…). Infine, gli avvenimenti stessi sono reclamati come un nutrimento mai abbastanza piccante. Se al mattino non c’è qualche grande disgrazia nel mondo sentiamo un certo vuoto (…) esiste per noi una specie di intossicazione da energia, come c’è un’intossicazione da fretta e un’altra da dimensioni. I bambini trovano che una nave non è mai abbastanza grande, un’automobile o un aereo mai abbastanza veloci (...). Non c’erano, per gli antichi, né minuti né secondi. Artisti come Stevenson, come Gauguin, hanno fuggito l’Europa e raggiunto isole senza orologi. La posta e il telefono non molestavano Platone. L’orario del treno non assillava Virgilio. Cartesio si abbandonava a sognare lungo i canali di Amsterdam. Ma i nostri movimenti sono regolati oggi su frazioni esatte di tempo”.
Sia chiaro: Valéry non credeva in nulla. Il suo era soltanto un istinto di autodifesa che gli faceva temere la stupidità prodotta dall’ottundimento sensoriale e dalla “crescente e generale indifferenza nei confronti della bruttezza e della brutalità”. Leonardo da Vinci, oggi tanto celebrato, era uno dei suoi idoli. E Leonardo non pensava in fretta, non dipingeva in fretta. Lo si ritiene il padre della cultura moderna. Ne è invece l’esatto opposto. La maggior parte dei suoi progetti è rimasta irrealizzata e lui sapeva che in cattive mani avrebbe causato sicuri orrori.
E gli intellettuali di oggi, con il loro ruolo professionale e la loro augurabile funzione? Vedo che se ne parla sull’Espresso di questa settimana in un’intervista di Wlodek Goldkorn a Dan Diner, docente di Storia moderna all’Università ebraica di Gerusalemme. Dice Diner: “Gli intellettuali non ci sono più perché non c’è capacità di astrazione, e con la scomparsa degli intellettuali abbiamo difficoltà a capire la complessità del mondo (…). Il principale strumento è la critica. Chiedersi sempre qual è la genesi delle cose. Mantenere la capacità di giudizio e distinguere tra un fenomeno e un altro. Mettere tutto in dubbio. Sarà una ricetta illuministica, kantiana, ma non abbiamo altro”.
Non abbiamo altro, ma l’intellettuale critico ha smesso da tempo di essere protagonista e ascoltato. Ne parla indirettamente la vignetta di Altan, in cui un ragazzino che sfoglia un giornale o giornaletto esclama: “Ho capito: da grande devo diventare un potente energumeno”. Nella cultura di massa per grandi e piccoli, che si tratti di realtà o fantasia, di politica, di sesso o di sport, protagonista è oggi l’energumeno. Ne trovate esemplari a volontà di varia misura e colore, ai vertici del potere, nelle periferie, nei quartieri alti, nei videogiochi.