BAM eleva l'orizzonte umano di Palermo oltre i muri del mondo
La Biennale Arcipelago Mediterraneo immerge la città in una riflessione sui confini fisici e concettuali attraverso le visioni di artisti poliedrici
Palermo. “Palermo è come una tunica” – scrive Simonetta Agnello Hornby nel suo nuovo libro (Siamo Palermo, Strade Blu Mondadori), dedicato al capoluogo siciliano con ricordi e pensieri del regista ed erede dell’Opera dei Pupi Mimmo Cuticchio. “È tutta pieghe e per conoscerla bisogna penetrare in quelle pieghe, consapevoli che spesso vi si celano tesori inaspettati”. Ne abbiamo conferma ogni volta che ci torniamo, il che accade spesso visto che quella città sospesa nello spazio, negli usi e costumi di Europa e Africa, Oriente e Occidente, è sempre più viva dal punto di vista culturale. Se è stata attuata una visione politica mediterranea ispirata ai principi fondativi dell’Europa, al riconoscimento dei diritti umani universali, al diritto alla mobilità umana (con la Carta del 2015) e alla difesa dell’ambiente e se c’è stata - lo scorso anno - Manifesta 12 nel momento esatto in cui la città era la Capitale Italiana della Cultura, non è certo un caso.
Palermo sarà pure imperfetta, ma è bella così. Avrà pure i suoi problemi, ma non meno di altre città italiane sicuramente meno bersagliate dai più. C’è apertura, accoglienza e unione, che sono poi alcuni dei temi centrali attorno ai quali nasce e si sviluppa BAM, la Biennale Arcipelago Mediterraneo, il Festival internazionale di teatro, musica e arti visive in programma in molte locations della città fino all’8 dicembre. “A Palermo, il Mediterraneo non è un confine fisico, ma un orizzonte umano”, spiega al Foglio Andrea Cusumano, ex Assessore alla Cultura del Comune nonché fondatore e direttore della kermesse. “Abbiamo condiviso questo punto di vista con artisti, scrittori, pensatori e scienziati di fama internazionale per costruire visioni e azioni capaci di perseguire obiettivi programmatici adeguati alle sfide della contemporaneità e proiettati verso una visione non localistica, ma globale”. BAM 2019 gira attorno al neologismo ÜberMauer (OltreMuro) che rimanda al concetto rivoluzionario dell’Übermensch di Friedrich Nietzsche, una riflessione su come muri, confini e delimitazioni fisiche e concettuali stiano caratterizzando il mondo odierno e su come possa essere possibile oltrepassarli, un tema che sviluppato attraverso la programmazione principale della biennale che è a cura di Fondazione Merz e di European Alternatives, organizzazione internazionale che nel 2007 a Londra ha fondato il Transeuropa Festival.
Passeggiare per Piazza Magione e visitare il vicino convento, il Teatro Garibaldi, il Teatro Bellini, lo Spasimo e la Chiesa dei Santi Euno e Giuliano, è un’esperienza da fare più volte. Una maniera per immergersi in una realtà senza tempo, ben testimoniata, ad esempio, dall’installazione dell’artista israeliana Michal Rovner alla Chiesa di Santa Maria dello Spasimo, il posto più suggestivo di tutto il quartiere della Kalsa. Se al Museo Maxxi di Roma l’artista è presente in una collettiva intitolata della materia spirituale dell’arte, in cui interpreta il tema dello spirituale in dialogo con reperti archeologici della storia arcaica di Roma, qui a Palermo ha creato immagini di uomini e installazioni pittoriche – migliaia – ritratte in movimento secondo un processo di costruzione, decostruzione e ricostruzione. La storia è una successione cronologica di successioni, una catena di rotture”, ci spiega mentre davanti e dietro di noi succede l’incredibile: sulle due pareti della chiesa senza il tetto, vengono proiettate quelle immagini che diventano definite solo da vicino, scatenando giochi luci e riflessi con musica che, come accade sempre in tutte le opere della Rovner, ha un valore fondamentale. Qui è creata da campane, “un suono, precisa, ascoltato per caso viaggiando su un treno da Mosca alla Mongolia che ho fatto mio registrandolo”. Un suono continuo e che cresce con l’avanzare lento di quelle figure verso un ignoto, una strana fusione di tutti i tempi.
Si rivolge ad immagini anche la celebre artista iraniana Shirin Neshat (anche lei presente nella collettiva romana) che alla BAM approfondisce il suo percorso sempre attento alla condizione femminile, per esplorare il terreno psicologico del dolore, dell’alienazione, della perdita, della riconciliazione e della redenzione. Se nel primo film (Turbolent, 1998) presenta il confronto tra due anime sonore, la cantante Shoja Azari e la compositrice Sussan Deyhim, che si esibiscono in antica musica e poesia persiana, nel secondo (Sarah, 2016), ci porta nell’atmosfera onirica di una foresta abitata dai fantasmi di un passato traumatico. Particolare il lavoro della palestinese Emily Jacir al Convento e chiostro della Magione che va ad indagare il movimento personale e collettivo attraverso lo spazio pubblico e le sue implicazioni sull’esperienza fisica e sociale dello spazio e del tempo trans-mediterraneo utilizzando luci, musica e quasi cento tipi di piante diverse. “Stranieri Ovunque” è la serie di insegne al neon con cui il collettivo Claire Fontaine suggerisce che l’immigrazione e l’emigrazione non sono più semplici epifenomeni legati all’economia, ma sono esperienze esistenziali e percettive a sé stanti. Driant Zeneli, all’interno della Chiesa dei santi Euno e Giuliano, affronta i temi del fallimento e dell’utopia raccontando la storia di suo padre nel video When I grow up I want to be an Artist (2007), visibile della cripta della chiesa, mentre negli ambienti superiori il video Too late (2008) è una riflessione sulla mutevolezza e l’imprevedibilità del tempo. Damián Ortega e Giuseppe Lana, attraverso due installazioni a Piazza Magione (quella di Lana è stata danneggiata nei giorni scorsi, ma è già tornata in funzione), riflettono sul concetto di limite, installando rispettivamente un muro e alcune barriere meccaniche. Da non perdere, poi, la mostra site-specific di New Unions (la campagna artistica e politica lanciata dall’artista) al Teatro Garibaldi, trasformato per l’occasione in un grande spazio assembleare. Al centro della platea c’è un grande tappeto con grandi stelle, mappe di partiti e piattaforme progressiste di tutto il continente, tra opere video che raccontano di parlamenti alternativi costruiti in stadi e su piattaforme petrolifere mentre bandiere nazionali sono decostruite, diventando così simboli paneuropei. Ultimo, ma non per importanza, l’opera di Alfredo Jaar al Teatro Bellini, altro posto storico da tempo chiuso, un’occasione per visitarlo. Da anni, con i suoi lavori, l’artista cileno sollecita all’autoconsapevolezza e alla responsabilità verso il mondo e ciò che accade toccando le corde dell’emozione fino a creare un processo empatico di solidarietà e di coinvolgimento intellettuale.
Entrate anche qui e arrivate in platea: ci sono sedie ovunque, ma alzate gli occhi, perché le troverete anche sopra di voi, sospese in modo volutamente caotico e circondate da una scritta al neon di colore rosso, una citazione di Gramsci: “Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri”. Un invito ad agire il prima possibile, ripartendo dall’arte, questo è sicuro, ma non soltanto da lì.