Che noia l'antipolitica
Un libro di Marco Follini ripercorre gli anni della Dc. Un pianeta distantissimo dalla storia presente
Nessuna delle ragioni che muovono a leggere “Democrazia cristiana. Il racconto di un partito” di Marco Follini, edito da Sellerio, sono quelle che si utilizzeranno per consigliare poi il libro agli amici. Perché a 30 anni dalla caduta del Muro e a 26 dalla chiusura della Dc e dal disfacimento dell’unico sistema di partiti che lo stato unitario abbia mai conosciuto, vai senz’altro a comprare il libro di Follini per capire com’è che, tempo fa, ci fossero in Italia grandi partiti di massa. E però alla fine del libro, ciò che ti appare più chiaro non è tanto come fosse possibile che un tempo ci fosse un sistema di partiti; piuttosto, come oggi sia impossibile che ce ne sia uno.
Sarà che i tempi presenti ci distraggono. Sarà che i tempi andati sono, appunto, andati. Sarà che i nessi di pensiero che tengono insieme la storia nazionale sono messi in crisi dall’enorme scarto concettuale tra il prima (Repubblica) e il dopo (seconda? terza? quarta Repubblica?). Ma l’effetto del libro di Follini è proprio questo: concentraci sul presente. Qualcosa di simile a ciò che accadeva leggendo mesi fa il libro di Filippo Ceccarelli (“Invano. Da De Gasperi a questi qua”, Feltrinelli), nel quale nonostante si trovino un mucchio di cose interessanti su De Gasperi e gli altri, non riesci a tenere l’attenzione lontana da “questi qua”. E infatti Follini ammette di dialogare un po’ col bel libro di Ceccarelli.
Se il racconto della Dc che ci propone Follini è una controstoria (di quel partito, ma anche dell’Italia), le alterne vicende del nostro tempo finiscono per essere la storia, la tesi cioè a cui l’antitesi della controstoria si oppone. Ma in un movimento nient’affatto dialettico: più nietzschiano, come tra apollineo e dionisiaco, una dialettica senza sintesi. Se “la Dc era sempre stata forte delle sue debolezze” (cito Follini), l’odierno antisistema dei partiti è debolissimo proprio in ragione della forza che, a ogni piè sospinto, ostenta. Se i democristiani erano incapaci di raccontarsi (come scrive Follini), oggi non c’è energia che non venga impiegata allo scopo della famigerata narrazione. Anche quando da raccontare c’è soltanto il “solido nulla” (questo è Leopardi, non Follini) dell’imperante e scoraggiante inazione.
Non c’è nostalgia. Lo scarto tra il prima e il dopo è così radicale da non permettere alla connessione emotiva, su cui muove la nostalgia, di attivarsi. Non si può cercare una stazione radio su frequenze sulle quali le sue antenne non trasmettono. Così, privato di ogni rapporto tra il prima e il dopo, bandite la sintesi e la nostalgia, ci resta solo il puro contrasto, anzi il conflitto peggiore, quello tra pianeti diversi, come in un film di fantascienza.
Follini utilizza uno splendido racconto di Calvino per spiegare quella che forse è stata la funzione storica fondamentale della Dc: il partito diga che, in nome dell’alleanza tra democrazia liberale ed economia di mercato, ha trasformato, negli anni ‘50 e ‘60, una nazione moribonda in un grande player internazionale. Poi la Dc ha contribuito a distruggere parte del proprio buongoverno (e Follini lo scrive eccome), ma qui ci interessa poco. Torniamo a Calvino, anche perché non c’è virtù migliore dei libri che richiamare, richiamarsi e rimandare ad altri libri.
“La grande bonaccia delle Antille” è un racconto del 1957. Dopo il sostegno del Pci di Togliatti alla soppressione armata e agli omicidi politici dei sovietici contro l’insurrezione ungherese, Calvino ha lasciato il partito. Scrive, nella novella, lo scrittore nato a Cuba: “Eravamo a largo delle Antille, procedevamo a passo di lumaca sula mare liscio come l’olio… Ed ecco che ci troviamo a tiro di cannone da un galeone spagnolo. Il galeone stava fermo, noi ci fermiamo pure e lì, in mezzo alla gran bonaccia, prediamo a fronteggiarci. Non potevamo passare noi, non potevano passare loro… Il capitano ci aveva spiegato che la vera battaglia navale era quello star lì fermi guardandoci, tenendoci pronti, ristudiando i piani”.
Ovvio che i due galeoni rappresentino la metafora dei grandi blocchi che si contrapponevano in Italia e nel mondo dopo la Seconda Guerra mondiale. Quando il Muro cadde, in Italia si attivò invece un movimento frenetico. Le chiatte, che avevano sostituito i galeoni, cominciarono pazzamente a navigare i mari. Dopo tanta bonaccia, quella frenesia diede speranza a molti, forse a tutti. Da allora a oggi, è più chiaro che navigare senza rotta serve solo a sprecare il vento o il carburante dei motori.
Oggi che tutto si muove allo scopo di muoversi, non c’è racconto della politica che non risulti presto noioso. Dà più noia tutto questo agitarsi, che la stasi di un tempo. È così che un libro in cui ti aspetti di trovare la storia di una cosa noiosa come la Dc, finisce diversamente per essere il racconto malinconico (ma non nostalgico) della noia infinita dei giorni che viviamo.
Universalismo individualistico