Il fascino proibito dell'irrealtà. Ecco i cabaret degli artisti
Una fioritura di locali interconnessi, da Parigi a Teheran. Un secolo fa, il mondo fu investito da un flusso di energia che sperimentava e innovava tra performance, poesie, musica, maschere, legni intagliati e dipinti
Come per scardinare la consuetudine dei luoghi comuni con i quali si narrano le vicende della nascita di artisti, gruppi, atteggiamenti culturali delle avanguardie il Barbican Center a Londra mette in scena, curata da Florence Ostende, una mostra tanto sontuosa negli apparati quanto acuta e profonda nei contenuti e nella visione. “Into the Night: Cabarets & Clubs in Modern Art” esplora e mette in scena il ruolo artistico e sociale di cabaret, caffè e club e la loro relazione con l’arte moderna in un rosario di città da Parigi a New York, da Teheran a Città del Messico, Londra, Berlino, Vienna, Ibadan e oltre. Viaggio affascinante negli anfratti non sempre noti della modernità in un periodo che tra il 1880 e il 1960 è profondamente segnato dall’infinita quantità e qualità di sperimentazione in luoghi originali e lontani dalle celebrazioni museali e dalla volgarità commerciale di mercanti, fiere d’arte e gallerie, in un clima d’intensi scambi teorici e umani. Quasi protetti da porte chiuse e liberati dai rigidi confini sociali, dalle oppressioni politiche e dalle norme sessuali, gli artisti progettano e teorizzano svincolati persino dalle divisioni di genere, pittura, musica, danza, cinema, letteratura in un reale flusso di energia interdisciplinare, caustica e rimasta insuperata.
Una mostra sontuosa negli apparati e acuta e profonda nei contenuti. “Into the Night: Cabarets & Clubs in Modern Art”
Dai siti più famosi ai luoghi più reconditi e sconosciuti una fioritura di locali – il più delle volte interconnessi – ha prodotto sperimentazioni spericolate capaci davvero di ospitare tra le loro mura i grandi nomi della ricerca più avanzata, ovvero la sostanza viva della frenesia del moderno, gli elementi del sogno da sognare. Diceva Arthur Segal, artista rumeno i cui lavori erano sovente in mostra al Cabaret Voltaire di Zurigo, “gli artisti erano ossessionati dall’idea di innovazione quasi si trattasse di una malattia”.
Cabaret allora come laboratori per la vita contemporanea, simboli della modernità urbana e persino modelli archetipi delle nascenti metropoli.
Per chi come noi vive gli anni della separazione, l’isolamento individualista di artisti privi di gruppi e teorie, risulta vitale e rigenerante ripercorrere la storia di questi luoghi di aggregazione popolati da artisti e spettatori di estrazioni le più diverse, classi sociali differenti almeno quanto le loro opinioni politiche, tutti pronti però a condividere l’ansia del nuovo, il fascino dell’esclusivo e del proibito.
Da non scordare poi che proprio in questi luoghi viene in qualche modo smantellata l’aristocratica distinzione dei generi, quella cioè fra le cosiddette belle arti e le arti applicate, dando il via a una reale interconnessione tra le pratiche High e l’enorme potenziale della nascente cultura di massa fatta di stampe, edizioni, pubblicità, editoria e tutto quanto ancor oggi si continua a torto a considerare cultura Low, in pratica di secondo piano. Il monumentale catalogo ricco in iconografia, saggi, documenti è l’indispensabile guida da cui attingere dati, ripercorre meditando il percorso espositivo molto articolato e ricco delle ricostruzioni di ambienti, esposizione di lavori originali, rari documenti filmati.
Si può immaginare che tutto prenda il via dalla nascita a Parigi di “Le Chat Noir”, fondato da Rodolphe Salis nel 1881
Si può immaginare che tutto prenda il via dalla nascita a Parigi di “Le Chat Noir”, fondato da Rodolphe Salis nel 1881 al numero 84 del Boulevard de Rochechouart a Montmartre. Salis, sin dall’inizio, tende a orchestrare un forte dialogo creativo tra pittori, illustratori, musicisti, poeti e chansonnier. Il locale è frequentato da Claude Debussy già dal 1880 mentre Erik Satie, che si era trasferito a Montmartre nel 1887, lavora come pianista sino al 1891. L’atmosfera interna del Cabaret concepita da Salis stesso rigurgitava lavori di artisti tra cui brilla “La Vergine Verde” dipinta da Adolphe-Léon Willette nel 1882. I primi ritrovi di artisti a Montmartre s’eran formati intorno agli Impressionisti che già nel 1870 si incontravano al Café Guerbois o al Café de la Nouvelle Athènes o al Rat Mort, locali tutti a Pigalle dove era facile incontrare Edgar Degas, Pierre Auguste Renoir, Édouard Manet e Claude Monet che viveva nei paraggi in Rue de Saint-Pétersbourg.
Lo Chat Noir delinea già il modello di locale proto-dadaista e surrealista ospitando scrittori quali gli Incohérents e il poeta giornalista Émile Goudeau, fondatore degli Hydropathes, che darà con le sue edizioni della rivista omonima una grande notorietà al luogo. Più tardi Salis sarà in grado di fondare un nuovo e più vasto Chat Noir al cui ingresso troneggiava la scritta che imponeva di “essere moderni”, proprio come predicava Arthur Rimbaud. Decori di Degas, Monet, Pissarro e di Henri de Toulouse-Lautrec impreziosivano pareti e sale, proprio come il grande affresco di più di tre metri di Steinlen “L’apoteosi dei gatti” (foto sotto). Il locale era considerato dai suoi tanti estimatori “il Louvre di Montmartre”.
Il Teatro delle Ombre sarà imitato dagli altri “cabarets artistiques”, come quello di Barcellona nel Quatre Gats Cafè
Forse al di là dei recital di poesia, spettacoli teatrali, concerti, si può dire che il contributo più spettacolare e sofisticato era rappresentato dal sontuoso Thèâtre d’Ombres creato dall’artista Henri Rivière e da Henry Somm, uno spettacolo misterioso, affascinante, dinamico che lumeggia in maniera decisiva i primi esiti del cinema. Silhouette, variazioni di colori astratti che han da fare col modernismo nascente di Lautrec, Émile Bernard, Pierre Bonnard, Vuillard e Vallotton. Questo Teatro delle Ombre sarà imitato dagli altri cabarets artistiques, come si potrà ben vedere a Barcellona nel Quatre Gats Cafè frequentato assiduamente da Pablo Picasso. Lautrec scriveva alla madre nel 1886: “Recentemente mi sono molto divertito qui al Chat Noir…”, divertito e dipinto i bozzetti per una serie di litografie quasi totalmente astratte ispirate alla famosa “Serpentine Dance” che la danzatrice americana Loïe Fuller portava in scena con strepitoso successo anche alle Folies Bergère.
A Vienna, nell’ottobre del 1907, il Cabaret Fledermaus era stato concepito dagli artisti del Wiener Werkstätte come un luogo dove la noia del mondo contemporaneo potesse essere rimpiazzata dal comfort, dall’arte e dalla cultura. I fondatori, l’architetto Josef Hoffmann, l’artista Koloman Moser e l’uomo d’affari Fritz Waerndorfer intendevano realizzare un luogo capace di stimolare i sensi attraverso una sintesi d’architettura moderna, pittura, poesia, musica e danza. L’idea dei fondatori era quella di creare un locale dove nessuna delle arti potesse essere esclusa e dove anche la bellezza della realizzazione architettonica degli spazi potesse essere di alto valore artistico-artigianale. Il cuore dei programmi del Cabaret era rappresentato da azioni e rappresentazioni dal vivo. Danza d’avanguardia, letture di poesia, performance musicali con un’apertura lungimirante dedicata anche alle donne artista, come la ballerina Grete Wiesenthal e la grande cantante Marya Delvard, supportate da set stravaganti ed elaborati costumi. Ma la volontà dei fondatori era proprio quella già enunciata dal filosofo tedesco F.E. Trahndorff nel 1827, poi ripresa e fatta propria da Richard Wagner che l’aveva inserita nel suo saggio “Die Kunst und die Revolution”, l’idea cioè di realizzare quel Gesamtkunstwerk, un’arte totale, una perfetta sintesi fra le arti con l’ambizione di esprimere i sentimenti di una cultura profonda, ricca di valori universali.
Danza d’avanguardia, letture di poesia, performance musicali con un’apertura lungimirante dedicata anche alle donne
E’ l’estate del 1912 quando apre i battenti a Londra in un oscuro piano interrato in Heddon Street a due passi da Regent Street, la Cave of the Golden Calf, il primo English Artist Cabaret. Fondato da Frida Strindberg, seconda moglie dello scrittore svedese August Strindberg. Il locale esordisce con una sorta di manifesto che promette una “gioia che non avrà da fare con la mezzanotte”, un luogo in cui la realtà della vita ordinaria sarà cancellata dalla “realtà dell’irreale”. Alla base anche l’idea di porre fine alle esistenti frontiere fra ciò che è English da ciò che è Continental nel realizzare un luogo edonistico lontano dalle restrizioni delle autorità, circondati da un nutrito gruppo di noti scrittori inglesi, da attori professionisti, così come da quegli artisti definiti genericamente “futuristi” per le loro idee di modernità largamente ispirate a Filippo Tommaso Marinetti – la cui presenza a Londra, nel 1912, per seguire la mostra dei pittori futuristi alla Sackville Gallery, è di grande rilievo. Decorazioni murali di Spencer Gore, Jacob Epstein, Charles Ginner e poi la scultura simbolo del Vitello d’oro, emblema del Paganesimo biblico e del locale, scolpito da Eric Gill per il foyer. Proprio Marinetti nel suo vagabondare continuo in Europa metterà in scena al Golden Cafè una cena futurista che includeva conferenza e dimostrazione dal vivo dell’Arte dei Rumori così come l’aveva proposta Luigi Carlo Russolo.
“Mentre i cannoni tuonavano in distanza noi recitavamo, leggevamo versi, cantavamo con tutta la nostra anima. Eravamo alla ricerca di un’arte elementare che potesse, credevamo, salvare l’umanità dalla follia furiosa dei nostri tempi”. Così scrive Jean Arp, uno dei più attivi partecipanti al Cabaret Voltaire di Zurigo, nel 1916. Su un giornale locale un paio di giorni prima dell’apertura del KünstlerKneipe Voltaire, il 5 febbraio, Hugo Ball, fondatore con Emmy Hennings del locale, era apparso un appello ai giovani artisti per ritrovarsi e vivere insieme in un luogo privilegiato dove riunire artisti, musicisti, poeti, letterati. Alle ore 18 il giorno dell’apertura i pittori arrivarono carichi di bozzetti da appendere alle pareti del Cabaret al numero uno della Spiegelgasse. Il piccolo boccascena traboccava di artisti dediti alle sperimentazioni più radicali tra letteratura, arte, teatro e danza. Lavori di Arp e Picasso appesi alle pareti tinte in blu mentre Emmy Hennings cantava canzoni antimilitaristiche tra spettacoli di marionette e danzatori mascherati al ritmo di percussioni africane. Hugo Ball, Tristan Tzara e Richard Huelsenbeck intenti a declamare poesie senza parole. Tra quelle mura nasce Dada, forse la testimonianza più radicale praticata attraverso una sorta di collasso del senso, il tentativo di dare una risposta all’insensata e catastrofica dramma della guerra. Dada per questo è stata considerata qualcosa come la farsa del nulla.
Elfriede Lohse-Wächtler, Lissy, 1931
Gli anni Sessanta nelle città di Ibadan e di Osogbo, in Nigeria. Dopo l’indipendenza si assiste alla fioritura dei club Mbari
Nel breve arco temporale che lega i turbolenti mesi tra il febbraio e l’ottobre del 1917 a Mosca il pittore russo Georgij Jakulov col sostegno dell’uomo d’affari Nikolai Filippov mette in opera il Cafè Pittoresque all’interno di un curioso edificio simile a una piccola stazione di treni o a uno stravagante cinema. Ecco ancora la ricerca di un luogo per l’arte nuova. Il team che lavora all’impresa è costituito dai grandi nomi dell’arte russa di quei giorni. Una decina di collaboratori, uomini e donne scelti nella più che ricca scena dell’avanguardia. Vladimir Tatlin al lavoro sui soffitti in vetro, Alexey Rybnikov a dipingere i muri del palcoscenico circolare. Effetti prismatici di luci danno l’impressione del movimento continuo. Assemblaggi scultorei sospesi ospitano luci colorate per dar risalto ai lavori di Aleksandr Rodčenko. L’inaugurazione del Cafè Pittoresque avvenne nel gennaio 1918 dopo che la rivoluzione aveva profondamente modificato la vita sociale e culturale della città. Quel giorno Vladimir Majakovskij con Vasilii Kamenskii e David Burlyuk declamarono le loro rivoluzionarie poesie. Senza tregua s’alterneranno lavori dell’avanguardia teatrale tra cui “La Donna Sconosciuta” di Aleksandr Blok.
Come ben si sa i Futuristi rifuggivano l’idea di produrre oggetti nuovi per un mondo vecchio, il loro credo era piuttosto quello di lavorare utopicamente per un mondo nuovo.
Nel 1915 Balla e Depero lanciavano il Manifesto di “Ricostruzione futurista dell’universo” nel tentativo di contrassegnare ogni elemento della vita con i simboli della velocità, il mito della macchina, il dinamismo sfrenato. Così quando a Giacomo Balla nel 1921 viene commissionato di metter mano al Bal Tic Tac & Cabaret, a Roma nasce uno spazio attraversato da colori in campiture violente e cariche di energia. Il locale fu inaugurato da Marinetti e per la prima volta a Roma risuonò la musica jazz, come ricorda il violinista Ugo Filippini quando l’orchestra introdusse la batteria e il sassofono.
Quello stesso anno, poco lontano, Fortunato Depero inizia a lavorare al suo Cabaret del Diavolo dopo che lo scrittore Gino Gori lo convince a trasformare la cantina di un hotel in un lavoro d’arte totale ispirato alla Divina Commedia dantesca. Depero disegna ovviamente tutto quanto: decori, arredi, tessuti, menù, attaccapanni, tessere d’ingresso. Anche questa volta è Marinetti a inaugurare il Cabaret col poeta Luciano Folgore e il maestro Casella che “verserà nell’imbuto delle anime elette le sue musiche celestiali”. E poi s’intende, però, Tutti al Diavolo.
Nel 1916 la piena attività della Zurigo dadaista, “la farsa del nulla”, un luogo privilegiato dove riunire artisti, musicisti, poeti
L’ambizione d’esser parte della corsa alla modernità non dimentica l’America Latina. Nasce nel 1920 a Mexico City il Cafè de Nadie, locale di grande vitalità creato anch’esso con l’intento di divenire da subito il punto focale di raccolta di tutti gli intellettuali votati all’avanguardia e in particolare di ospitare i protagonisti del Movimento Estridentista fondato dal poeta Manuel Maples Arce il 31 dicembre 1921 a Jakaoa quando viene lanciato il “Manifesto Actual N° 1”. Il Manifesto proponeva una rivolta violenta contro il conservatorismo con spunti estremi da riassumere nello slogan “Chopin alla sedia elettrica”. Cafè de Nadie come centro dell’attività estridentista sempre ricca di spunti politici e artistici che nell’aprile del 1924 sfoceranno in una grande mostra riccamente interdisciplinare fatta di performance, poemi, musica, maschere, legni intagliati e pitture. Anni dopo l’Estridentismo pone le sue basi a Xalapa mentre i gruppi rimasti a Città del Messico formeranno un nuovo movimento intriso di ideali politico rivoluzionari, il Movimento 30-30, nome programmatico tratto dal calibro di un noto proiettile.
Grande l’entusiasmo di Theo Van Doesburg, uno dei più raffinati fondatori con Mondrian del gruppo olandese De Stijl, quando sente di essere “all’inizio di una nuova èra in arte”, a proposito della nascita nel 1928 del Cafè Aubette, considerato uno dei progetti più ambizioni delle avanguardie degli anni Venti al punto da esser definito “la Cappella Sistina del Modernismo”. Esperienza multidisciplinare fatta di Ciné-Dancing, Salle des Fȇtes, Cafè Brasserie, ristoranti, il tutto avvolto in colorate astrazioni geometriche a tre dimensioni. Situato nella centrale Place Kléber a Strasburgo, il locale fu affidato nel 1926 per una totale reinvenzione a Sophie Taeuber-Arp, opera da lei condivisa col marito Hans Arp e con Theo Van Doesburg. Le forme biomorfe gialle dei murali di Arp eran viste come contrappunto al rigore del geometrismo diffuso nelle sale e si estendeva alla realizzazione di tutti gli arredi. L’insieme era concepito con l’intento di creare una visione di continuità stilistica, una sorta eccitazione nell’esser parte di un’opera d’arte totale.
Il crollo dell’impero tedesco a seguito del bagno di sangue della Prima guerra mondiale aveva lasciato la Repubblica di Weimar (1918-33) nel caos e la popolazione povera, disillusa, affamata e al collasso. Le strade della città divennero presto lo spazio vitale, le fonti d’ispirazione della vita artistica e culturale del tempo. Rilassamento della censura, esplosione di ritrovi notturni, caffè e cabaret divennero presto i luoghi dell’edonismo imperante, quello che Siegfried Kracauer definiva il “culto della distruzione” e che il governo stigmatizzava con annunci del tipo “Berlino fermati e pensa, tu stai danzando con la morte”.
Luoghi dell’edonismo, che Siegfried Kracauer definiva il “culto della distruzione” e che il governo stigmatizzava
Un ruolo diverso e di taglio radicalmente intellettuale l’han giocato il Cafè des Westens e il Romanisches Cafè. Il clima è ben testimoniato dalle opere di Max Beckmann, Otto Dix e George Grosz che narrano l’eccitazione del jazz, gli eventi Dada, la dinamicità dei balli esotici, la caricatura spietata della società. “La Revue Nègre” di Joséphine Baker trionfa a Berlino nel 1925 e le donne berlinesi possono abbigliarsi in abiti maschili, frequentare locali notturni mimare quasi senza distinzioni gli atteggiamenti maschili.
Si racconta che tutto sia cominciato con l’uscita dell’Antologia di Racconti “The New Negro” di Alain Locke nel 1925. Il quartiere di Harlem a New York diviene il centro nevralgico di una fioritura inarrestabile di attività culturali e artistiche in tutte le loro forme, letteratura, arti visive, musica, danza. L’Harlem Renaissance non si limita a proporre modelli culturali tratti dalla cultura bianca ma coraggiosamente propone i valori di una cultura originale e autonoma della quale può fregiarsi con orgoglio. E’ l’èra del jazz che dà il ritmo alle dinamiche atmosfere dei mille club che fioriscono negli anni del proibizionismo (1920-33). I Cabaret attraevano però anche la clientela bianca e come scriveva Chandler Owen sulla rivista Messenger, questi club rappresentano quasi “le maggiori istituzioni democratiche d’America”. Ai più famosi come il Cotton Club, Lenox Lounge, lo Small Paradise, si affiancavano i più esclusivi come il Connie’s Inn o il Bamboo Inn o i cosiddetti Jungle Halley come l’Harry Hausberry’s o la Clam House.
Leila Walker, figlia della prima donna milionaria di colore, trasforma la sua casa in un cabaret nella Centotrentaseiesima strada, The Black Tower dove l’artista Aaron Douglas decora le pareti con affreschi originali ed emozionanti mentre Langston Hughes riunisce letterati e poeti. Benché i proprietari di cabaret e club puntassero molto sulla clientela bianca, si può dire che gli autori di colore e i musicisti controllassero totalmente la maggior parte della vita culturale di Harlem.
Luoghi di aggregazione popolati da artisti e spettatori di classi sociali differenti almeno quanto le loro idee politiche, tutti pronti a condividere
Con un salto temporale si può arrivare agli anni Sessanta nell’Africa nigeriana nelle città di Ibadan e di Osogbo per incontrare, dopo l’indipendenza dallo sfruttamento coloniale, la fioritura dei club Mbari, che tra il 1961 ed il 1966 divengono luoghi magnetici per artisti, scrittori, musicisti e attori. Mbari nella lingua Igbo significa “creazione”, quel sentimento che spinge intellettuali nella città di Ibadan a fondare il primo Artists and Writers Club. Tra i fondatori Chinua Achebe e Wole Soyinka, i poeti Christopher Okigbo e John Pepper Clark. Di rilievo gli artisti Uche Okeke e Demas Nwoko. Nel cortile di un ristorante libanese vicino al mercato centrale si creò un vero piccolo distretto culturale ricco di gallerie d’arte, librerie, uffici aperti a tutto. Il luogo divenne presto un’attrazione internazionale, lettura di poesie, musicisti, danzatori ed attori, un modello di quei club che si moltiplicheranno e s’insidieranno anche nella città di Osogbo.
L’entusiasmante viaggio londinese termina in Iran, nella sua capitale Teheran, negli anni che vanno dal 1966 al 1969 ospita un club in grado di raccogliere una forte comunità artistica, il Rasht 29 – dal nome e numero della strada in cui sorge. Il club fu realizzato nel 1966 dall’architetto Kamran Diba, dall’artista Parviz Tanavoli e dalla musicista Roxana Saba in un moderno edificio a nord dell’ex Politecnico, con l’intento di riunire e consolidare la ricca scena culturale in atto. Uomini e donne, artisti, poeti, designer, musicisti, filmaker potevano incontrarsi in un luogo comune per discutere, senza limitazioni, il frutto delle loro ricerche. Il Rasht 29 per quanto mai concepito come galleria d’arte, ospitava spesso lavori di artisti. Persino la prima asta d’arte moderna in Iran ebbe luogo tra quelle mura e liberamente Tabrizi e Diba potevano organizzare settimanalmente la vendita di opere e libri sui marciapiedi antistanti.
Viaggio entusiasmante dal retrogusto nostalgico per un clima corale del far arte lentamente dissolto nell’odierna faticosa managerialità solitaria che non sa proprio come confrontarsi con lo sfrenato entusiasmo di questi pionieri della fede nell’arte totale. Viaggio come traccia intensa e toccante nel cuore e nelle ragioni dell’arte, ragioni davvero non soltanto monotonamente economiche ma attivamente ideali e sociali.