Rosso Trump
Da Valentino all’avvocato del presidente. Parla Matt Tyrnauer, che ha rinunciato al giornalismo per dedicarsi ai documentari
Terrazza romana. Matt Tyrnauer, cinquantun anni con lentiggini e leggerezza californiane, è una leggenda per tutti noi, avendo abbandonato la pericolante carta stampata per diventar cineasta con “Valentino: The Last Emperor”, il suo film che undici anni fa irruppe nel mondo della moda trasformando la coppia stilistica Valentino-Giammetti da distanti icone di successo in popstar globali. I carlini in aereo, il maggiordomo che allestisce favolose residenze, i litigi e le abbronzature. Grazie, davvero. “I giornali impazzirono, era la prima volta che in Italia una coppia gay così celebre ammetteva la propria relazione. Mi sembra che Repubblica titolò: Valentino fa outing”, dice, in italiano, Tyrnauer, e ride, bevendo la sua Sanpellegrino sul tetto di un primario hotel che rifulge nell’ottobrata romana ormai lontana. “Una rassegna stampa alta così”. Tutto cominciò da un profilo che aveva scritto di Valentino e Giammetti sul Vanity Fair americano, il giornale in cui lavorava e che non rimpiange per niente.
Il profilo piacque alla coppia imperial-stilistica, che accettò di farne un documentario. Salvo pentirsene quasi subito
Il profilo piacque alla coppia imperial-stilistica, che accettò di farne un documentario. Salvo pentirsene quasi subito. Come ha ricordato lo stesso Tyrnauer in uno spassoso articolo dal titolo “La mia lotta con Valentino”, “mi ero ispirato al documentario Marlene, fatto da Maximilian Schell sulla Dietrich. Un’ottima scuola per fare film su personaggi iconici e maniaci del controllo, sopravvivere e forse avere persino successo”. “Il film me lo finanziai tutto da solo, non avevo alcuna esperienza se non un po’ di teoria fatta all’università. E non mi potevo permettere errori. Valentino più di una volta decise di abbandonare il progetto, così a un certo punto pensai a un film solo di repertorio, o addirittura di animazione con un pupazzetto che facesse lo stilista. Ma poi per fortuna ogni volta che abbandonava le riprese si ripresentava il giorno dopo”. “Oh, sì, tagliammo molto, loro avrebbero voluto tagliare tutto, ci furono molti negoziati. Ma il diritto all’ultima parola, al final cut, era mio”, dice oggi il giornalista-diventato-regista.
La lotta fu aspra. “Dovetti essere astuto. In un primo momento fummo soft, giravamo solo quando Valentino voleva; poi non c’era più tempo e girammo sempre e comunque. La mattina ci dotavamo di minuscole telecamere e microfoni per sentire e registrare tutto, per rendere le riprese il più naturali possibile. Un accorgimento che scattò quando Valentino mi urlò ‘togli quella dannata giraffa dalla mia testa’. Fu anche la prima volta che capii che quel tipo di microfono in italiano si chiama giraffa”. La storia di “Valentino: The Last Emperor” è anche un manuale su come si fa un film indipendente. “Avevo investito cinquantamila dollari dei miei che finirono nelle prime riprese. Poi per pagare le trasferte e la troupe aprii tre carte di credito americane di una certa banca Capital One. Giammetti, che è un uomo d’affari, mi chiedeva di continuo: come va coi finanziamenti? E io: garantisce la banca Capital One”. Il gioco delle tre carte (di credito) servì a comprare i biglietti per Parigi e filmare una delle scene principali del film, quando, ricevendo la Legion d’onore, Valentino scoppia a piangere e ringrazia per la prima volta Giammetti come suo partner.
Giornali e riviste hanno ancora un futuro? “Diventeranno dei manufatti di nicchia, assai lussuosi, come le carrozze a cavallo
Ora ride, Tyrnauer: “Valentino e Giammetti sono stati molto coraggiosi, hanno mostrato i loro lati privati, i loro litigi”; quelli epici, che tutti sappiamo a memoria (“non ti ho mai deluso vero?”; “Quasi mai”). Ma la reazione quando videro la prima versione non fu proprio entusiastica; “dire che mi odiarono è forse un understatement”. Il film fu proiettato al Festival di Venezia del 2008; “a quel punto non ci parlavamo quasi, ma quando il film finì e Valentino in sala fu applaudito da una standing ovation, tutto cambiò”. “Ci sono molte scene nel film che avrei evitato se avessi saputo come stava venendo il film”, disse Valentino. “Ma non posso lamentarmi: ora che mi vedete come realmente sono, devo accettarlo”. A Venezia qualcuno racconta anche che Marta Marzotto sollevò praticamente da terra Giammetti (perché nel film non ci sono parole molto carine per il figlio Matteo, che era presidente dell’azienda).
In realtà il film regalò Valentino-Giammetti al mainstream, creando anche un genere nuovo di zecca, i film sugli stilisti: arrivarono quello su Lagerfeld, quello su Coco Chanel, svariati su Yves Saint Laurent. Oggi che tutto un popolo adorante segue le valentiniadi come una fantastica soap instagrammatica, pare difficile immaginare lo choc di dieci anni fa. “Era un po’ un segreto di pulcinella. Loro del resto spendevano miliardi in pubblicità, ma non avevano mai pubblicizzato la loro storia d’amore, che è chiaramente la loro più bella creazione”, dice adesso Tyrnauer.
“Ma Roma in generale è un po’ la città dei segreti di pulcinella”, riflette il regista, californiano sedotto da Roma, dove ha vissuto, in una casa al Colle Oppio. “Ci voleva un outsider gay americano per raccontare questa storia, come tanti provinciali hanno raccontato Roma”, dice guardando il panorama. “Ecco il gasometro. Anche dalla mia terrazza, tutti indicavano il gasometro. Ma perché mai con tutte le cupole in lontananza guardate il gasometro, a Roma?”. Forse perché è l’unica cosa moderna tra migliaia di rovine. Roma non ha i grattacieli, ci si accontenta del gasometro. Ma su altre terrazze: “Una volta Gore Vidal mi raccontò che al suo attico a Torre Argentina andò a intervistarlo Oriana Fallaci. C’era un cartello, proibito usare l’ascensore, Vidal le disse ‘non ti preoccupare, forbidden is permitted in Rome’, tutto ciò che è proibito è consentito, a Roma”. Vidal è stato il suo mentore. “Certo, mi manca. Mi manca molto. Lui aveva previsto tutto, del resto, in quest’America che chiamava United States of Amnesia”. Prima del documentario che gli ha cambiato la vita Tyrnauer era inviato speciale di Vanity Fair, braccio destro del leggendario Graydon Carter con cui aveva iniziato. E Carter lo voleva come suo successore. “Peccato che Anna Wintour avesse altri progetti”, ride oggi lui. Così abbandona la carta e si dà ai documentari. Fonda la sua casa cinematografica, e ora fa solo film, guadagnandoci evidentemente in glamour e salute.
Dopo Valentino ha fatto “Scotty e i segreti di Hollywood”, presentato alla festa del cinema di Roma due anni fa, dedicato a Scott Bowers, prostituto maschile che aveva allietato Rock Hudson, Spencer Tracy, Walt Disney, e tutta l’industria cinematografica dell’epoca (oltre allo stesso Vidal), mentre passavano gli anni puritani del maccartismo. “Povero Scotty”, dice adesso Tyrnauer, “tutti pensavamo che avrebbe vissuto per sempre, di certo almeno cent’anni”, dice sorseggiando la sua acqua, perché il povero Scotty è morto proprio qualche giorno prima di questa intervista. Forse il destino cinematografaro di Tyrnauer era scritto. Il padre era uno sceneggiatore, “fece il tenente Colombo e la Signora in Giallo. Ah, la Signora in Giallo: quando lo dico impazziscono, in Italia”. Ora lui vive in un canyon tipo “Once Upon a Time in Hollywood”, e prima in “un palazzo fatto costruire da Cecil B. De Mille per gli attori che si trasferivano a Los Angeles”.
Tyrnauer va avanti da anni in una sua ricognizione molto peculiare del costume sessual-politico americano e globale, una specie di “Comizi d’amore” in cui si vede l’apporto delle scienze politiche di Vidal. Dopo Scotty è arrivato l’anno scorso “Studio 54”, sul celebre club, e “proprio mentre facevo ricerche per quello scopro Roy Cohn, avvocato potentissimo, non solo del club ma anche della mafia newyorchese, e poi di Donald Trump, di cui fu una specie di maestro. Per il momento decisi che era una storia interessante ma non così interessante, perché, era il 2016, nessuno sano di mente avrebbe pensato che Trump potesse diventare davvero presidente”. Invece è accaduto.
Così Roy Cohn si è meritato il suo documentario, appena presentato a Roma. “Where’s my Roy Cohn”, una frase detta da Trump, è il titolo. E Tyrnauer ne è convinto: Trump, da Cohn, è stato plasmato. “La lezione di base è: mai chiedere scusa. Se qualcuno ti colpisce, tu colpisci più forte. E ogni pubblicità è una buona pubblicità. E infine: trovati sempre un ‘altro’, su cui spostare l’attenzione. Per Trump l’altro sono i messicani, gli immigrati. L’importante è riempire il vuoto: riempi il vuoto e vedi se funziona. Già lo insegnava la propaganda hitleriana”.
Andiamo allora a vedere il film (Tyrnauer arriva, vestito blu, accolto da pezzi della tribù valentiniana, dame, gentiluomini. “Stai a diventa’ una star”, gli dice una signora; ma Giammetti e Valentino non ci sono, sono a Londra). Il film è tosto: Roy Cohn nasce non come ci si aspetterebbe da una famiglia povera bensì da una ricchissima ereditiera ebrea che non trova marito se non in un giudice povero e non ebreo. Mette tutte le aspirazioni su questo figlio, basso, occhi azzurri, naso imperfetto che lei gli fa rifare ancora bambino, lui che svilupperà un’ambizione sfrenata di potere. Diventa assistente del procuratore generale e poi dell’efferato senatore McCarthy che guida la commissione anticomunista. Si distingue per cattiveria: senza molte prove fa condannare a morte per spionaggio la famiglia Rosenberg (“se avessi potuto azionare io stesso la sedia elettrica l’avrei fatto”), perseguita e rintraccia tutti gli omosessuali nascosti nell’Amministrazione pubblica (anche se sia McCarthy sia lui erano gay nascostissimi), poi ha un primo sbrocco perché s’innamora dell’erede degli alberghi David Schine; tenta di farlo raccomandare quando va soldato, ma i capi dell’esercito si incazzano. Lui, pazzamente, a quel punto fa mettere sotto inchiesta lo stato maggiore dell’esercito, che sostiene essere infiltrato dai comunisti.
Non ci parlavamo quasi, ma quando il film finì e Valentino in sala fu applaudito da una standing ovation, tutto cambiò
Nel materiale d’archivio si vedono tanti filmati incredibili di questa commissione McCarthy che indaga sull’esercito quando tutti sanno la verità. Alla fine, nonostante l’enorme potere di Cohn, la vicenda è troppo surreale, lui si dimette, torna a New York e da lì in poi si dà alla libera professione, diventando il classico avvocato efferato che vince tutte le cause lasciando morti e feriti sul campo. Frequenta i migliori ristoranti e le peggio famiglie mafiose, i Gambino sono i suoi primi clienti. Quando muore la micidiale mamma, come spesso accade, perde ogni freno residuo: due Rolls Royce, sci d’acqua sotto il ponte di Brooklyn, yacht sibaritici fatti affondare per riscuotere polizze, marinai e autisti tipo Ludwig; comincia a ricevere non più a studio ma nel grande letto a baldacchino in un’infinita distesa di peluche. Con l’elezione alla Casa Bianca del suo amico Reagan il suo potere è all’apice. Conosce Trump, che, ancora ragazzino del New Jersey, ha bisogno di un istitutore a New York. Gli insegna subito come si fa: la Trump Tower verrà costruita in cemento, invece che in acciaio come tutti gli altri grandi grattacieli, perché il business del cemento è controllato dalle famiglie mafiose. E poi da immigrati che non verranno mai pagati. Quando il comune denuncia il giovane Trump, lui su consiglio di Cohn invece che scusarsi denuncia a sua volta il comune. L’allievo supera insomma il maestro. Il maestro fa una fine brutale. Viene radiato dall’albo per aver incredibilmente falsificato il testamento di un magnate in fin di vita, travestitosi da infermiere al suo capezzale; morirà di Aids nel 1986 negando fino all’ultimo di essere malato, e nonostante le cure sperimentali che lui solo può avere grazie alla vicinanza coi Reagan. Trump lo abbandona al suo destino. “Quando stavi vicino a lui avevi la sensazione di essere al cospetto del Male in persona”, dice un testimone nel film. In realtà è così facile odiarlo che un po’ ci si affeziona, a questo ometto con gli occhi azzurri e la faccia sconquassata da lifting primordiali.
Di nuovo in hotel: Tyrnauer ne è convinto: “Oh, sì l’impeachment di Trump andrà avanti, anche se è un processo lungo e complicato. Magari vieni assolto. E magari la tua popolarità cresce, proprio grazie all’impeachment. Questo è ciò che spera Trump. Ed è quello che accadde con Clinton. Ricordo che ero a Roma in quei tempi: un giorno stavo comprando una camicia da Battistoni, e una signora sentendo che ero americano mi disse: basta, lasciatelo in pace, il privato è privato!”.
“Where’s my Roy Cohn” è il titolo preso da una frase detta da Trump. E il regista ne è convinto: Trump, da Cohn, è stato plasmato
Tyrnauer del resto ha iniziato proprio con Trump. “Avevo 23 anni e mi mandarono a fare il pezzo a Mar A Lago, la proprietà golfistica di Trump in Florida, dove veniva battezzata sua figlia Tiffany”. “Già quel posto ha una storia incredibile”, dice. “Era stato voluto da un’ereditiera che l’aveva lasciato al governo degli Stati Uniti, ma poi il governo l’aveva rifiutato perché costava troppo di manutenzione. Poi se l’è comprato Trump”. E’ anche il posto dove, senza vergogna, avrebbe voluto fare il prossimo G7, ma poi è stato giudicato troppo anche per lui. “Insomma, vado lì, ed è tutto piacevole, io ero un giovane di bottega, e Trump che allora era un imprenditore un po’ tamarro, nient’altro, fu gentilissimo, continuava a inseguirmi chiedendo se volessi un po’ di cocktail di scampi”.
Adesso Tyrnauer sta lavorando a un nuovo documentario segretissimo. Ha per caso delle nostalgie per la scrittura? “Ma no, assolutamente, e poi scrivo un sacco. I miei film me li scrivo tutti da solo. E mi propongono una quantità di introduzioni. Ecco, sono diventato un grande scrittore di coffee-table book”. Sia serio. Pensa che giornali e riviste abbiano ancora un futuro? “Beh, forse non moriranno, ma credo che diventeranno dei manufatti molto di nicchia, assai lussuosi, come le carrozze a cavallo. Anche quelle non sono morte, ufficialmente, sa? Se paghi puoi ancora andarci, per esempio a Central Park”.