I fuochi d'artificio di Amy Hempel
Sono le donne e gli uomini dei suoi racconti. Senza nome, fragili e imperfetti, ma che esplodono di vita
E poi ci sono dei racconti che non ti lasciano più. Che continuano a esploderti nella testa come inesausti fuochi d’artificio. Racconti che ti seducono con la loro bellezza improvvisa, e con il buio che la contorna. I racconti di Amy Hempel sono così.
Ricordo quando molti anni fa un amico mi disse: devi leggere L’uomo di Bogotà. Non avevo ancora letto niente di Amy Hempel, ma per lui avrei dovuto iniziare proprio da quel racconto, contenuto nella raccolta Ragioni per vivere (le short stories scritte dal 1985 al 2005, che Sem ha ripubblicato quest’anno). Una sola pagina, una donna su un cornicione, un’altra – la voce narrante – che la deve convincere a scendere. Non sappiamo nulla dei loro gesti, di dove si trovino: in quale città; se si tratti di un palazzo alto, un grattacielo forse, o una semplice casa. Ma tutto questo non è importante. C’è una donna che si mette a raccontare a un’altra donna qualcosa che dovrebbe salvarle la vita. D’altronde le storie la vita ce la salvano sempre, ce la salvano di continuo. Lei le parla di un uomo di Bogotà, un miliardario che era stato rapito. La moglie ci mise molto tempo a procurarsi i soldi del riscatto. I rapitori sapevano di doverlo tenere in vita a tutti costi. L’uomo di Bogotà era malato di cuore così gli fecero smettere di fumare, gli cambiarono la dieta e lo costrinsero a fare ginnastica per mesi. “Una volta pagato il riscatto, l’uomo venne rilasciato e fu visitato da un medico: questi lo trovò in ottima salute. Racconto alla donna quello che le disse il medico: il rapimento era la cosa migliore che potesse capitare a quell’uomo”. Ha la prosodia del non-sense, ma non ti lascia andare. Perché la storia di quel miliardario rapito dovrebbe convincere una donna a non togliersi la vita? Non facciamo altro che interrogarci su questo punto, forse intravediamo una risposta, forse no. Intanto torna di continuo l’immagine di queste due donne: le rivedo sedute insieme sul cornicione. Nella mia testa c’è anche un uomo – l’uomo di Bogotà che Hempel non ha mai descritto. Eppure, eccolo là. Nella mia testa indossa giacca e cravatta, ha i polsi legati e non parla. Tiene gli occhiali sul naso e mastica una foglia d’insalata.
Hempel ti abbaglia con immagini cesellate, con un giro di frase e una situazione paradossale. Tutto si accende in modo imprevedibile
Sì, è come un fuoco d’artificio. Hempel ti abbaglia con le sue immagini cesellate, con un giro di frase e una situazione paradossale. Tutto si accende in modo imprevedibile. Succede anche nella nuova raccolta, i racconti che abbiamo atteso dieci anni: Nessuno è come qualcun altro (Sem, traduzione di Silvia Pareschi). C’è una donna a letto, si sveglia di notte e non riesce a bere un bicchiere d’acqua. Così si alza e guarda dalla finestra: assomiglia all’incipit di un racconto di Flannery O’Connor. Nel cielo c’è la luna, è piena ma ha qualcosa in più: forma un arcobaleno bianco. La donna esce in giardino. Me la immagino scalza, assonnata, per niente turbata dalla sua insonnia. A guardare in cielo c’è anche un orso bruno. Una donna, un orso, un arcobaleno candido come il latte. L’orso però, forse per effetto della visione, si comporta come il cane della donna, il suo cane che è morto da un po’: beve da una ciotola, gioca con un vecchio peluche. In poche righe la donna confessa all’orso tutta la sua vita, i piccoli fallimenti, l’insoddisfazione per un taglio di capelli e la perdita del suo cane, compagno quotidiano. Una donna, un orso, la solitudine.
Dura un attimo, il racconto (Arcobaleno lunare), ma si porta dietro un’immagine che torna e ritorna in chi lo ha letto. Ha la consistenza dell’enigma, la stessa profondità abissale. E come enigmi sono certe frasi di Amy Hempel: “Una cosa tra loro due: mele verdi”; “La seconda d è muta. Su questo eravamo d’accordo se non altro”; “Quando il pericolo si avvicina, cantagli una canzone”; “A Greensboro, in North Carolina, un tornado di bambole tocca terra in una stanza”.
Anche in Du jour, un racconto di Ragioni per vivere, la protagonista è una donna; anche lei senza nome, come la maggior parte dei personaggi di Hempel. E’ una cuoca, cucina zuppe in un ristorante e fuma tre pacchetti di sigarette al giorno. Forse è per questo che le condisce troppo, che esagera con il peperoncino. La sua bocca è un disastro e allora decide di smettere. “Sto ingrassando” racconta. “Ma non perché mangio più del solito. Sto ingrassando perché ho smesso di tossire. Tossire era la mia ginnastica”.
Nulla è chiaro davvero, tutto si muove sul filo di un’irresistibile ambiguità. C’è una sorta di seduzione nei racconti di Amy Hempel. Il primo racconto di Nessuno è come qualcun altro si accende in poche righe. Un uomo sta morendo, anche se l’autrice non lo rende esplicito. La narratrice è lì per confortarlo, vorrebbe evitare l’uso di qualsiasi metafora; ma poi niente, è impossibile. La vediamo mimare con le mani un’amaca per consolare l’uomo morente. E’ un racconto, ma è compatto come una poesia.
Scriveva lo scrittore americano Rick Moody a proposito di Hempel: “E’ tutto nelle frasi. E’ nel modo in cui le frasi si muovono nei paragrafi. E’ nel ritmo. E’ nell’ambiguità. E’ nel modo in cui l’emozione, in circostanze difficili, viene catturata nel linguaggio. E’ negli istanti di coscienza. E’ nella coscienza assediata. E’ sulle pene d’amore. E’ sulla morte. E’ sul suicidio. E’ sul corpo. E’ sullo scetticismo. E’ contro il sentimentalismo. E’ contro il sentimento facile. E’ sul rimpianto. E’ sulla sopravvivenza. E’ nelle frasi usate per rappresentare e difendere la sopravvivenza”.
Il racconto più bello della raccolta, quello della donna che porta i cani verso l’ultima passeggiata prima dell’eutanasia
C’è il brillio scoppiettante del fuoco d’artificio e intorno c’è il buio della notte. Ci sono le immagini, ma anche i non detti, le ellissi, i vertiginosi spazi tra un paragrafo e l’altro. “Ometto molte cose quando dico la verità. Lo stesso vale per quando scrivo”. Dentro i racconti di Hempel ci sono vite intere, vite che precipitano, che si avvitano intorno a traumi e a tragedie, che si annodano intorno a una solitudine di cui non conosciamo l’origine. Chi sono i protagonisti di Fort Bedd? Un lui, una lei. Marito e moglie, con ogni probabilità. Sono d’accordo solo sul fatto che la seconda d di Fort Bedd sia muta, eppure hanno passato tutto il tempo a loro disposizione insieme, aggrappandosi l’uno all’altra, in cerca di sicurezza, di un posto caldo, al riparo dalle intemperie; lì nel loro letto che è come un fortino immerso nel buio, l’unico luogo sicuro che conoscano. Ma lei ci sono giorni che non ce la fa, e quando non ce la fa pensa agli alberi, gli unici che sappiano come e dove mettere radici. Pensa agli alberi e agli alberi va, quando ha bisogno di respirare. Va al vivaio compra un corniolo o un abete e lo pianta in un campo. Tornerà all’albero tutte le volte che vorrà, come un appuntamento segreto e intimo. Gli porterà dell’acqua, un respiro, un pensiero.
Dentro questi racconti ci sono vite intere, vite che precipitano, che si annodano intorno a una solitudine di cui non conosciamo l’origine
“Ricordo di aver pensato: non ci sarà mai un momento in cui non ci penso. E avevo ragione. E avevo torto”. Cloudland è un racconto più lungo. C’è questa donna sola che ha lasciato la sua città dove faceva l’insegnante, ha perso il lavoro, ha sniffato coca con le sue studentesse e ora vive in Florida di fronte al mare, si occupa di persone anziane e ancora ha bisogno di credere nella bellezza. E’ una donna sola che sola non è mai, perché pensa di continuo a una bambina. “Fantasticare su un’altra persona è diverso; è una specie di talento concettuale. Mi ero lasciata andare: ero totalmente coinvolta quando immaginavo la vita di quella bambina. In certi momenti un giorno per volta, ogni giorno della sua vita, mentre in altri momenti lasciavo vagare l’attenzione lontano da una conferenza o uno spettacolo teatrale, magari anche bello, e contemplavo lo svolgersi di una vita, una vita che non avevo avuto modo di seguire una volta presa la decisione che mi sembrava migliore per lei. Oh, e migliore anche per me: non posso fingere che non fosse migliore anche per me”. E’ la bambina che ha dato in adozione quando era solo una ragazza, la neonata che non ha neanche visto in faccia, che a stento ha sentito piangere. Ma un bambino che non si è voluto esiste comunque. E allora questa donna in Florida che parla con i vicini, che si occupa della piscina e delle piante della casa in cui vive, intanto torna – ogni giorno, ogni attimo della giornata – alla sua bambina perduta. La vede nuotare con il giubbotto di salvataggio, la immagina avvistare le oche in formazione, mangiare biscotti. E’ con lei che fa i viaggi in macchina, le indica i paesaggi dal finestrino, le mostra New Orleans. La donna guida, intanto tiene la cintura allacciata sopra il sedile vuoto.
La chicane racconta invece la vita di Lauryn, della sua infelicità: l’amore per un attore francese, il bambino che ha perso, il matrimonio felice con un pilota portoghese di nome Macario, la loro vita vicino a Estoril, quei farmaci che compaiono all’improvviso e servono a risollevare lo spirito, un nuovo bambino. E poi qualcosa che continua a non funzionare. Un viaggio a Lisbona, Lauryn che passa l’ultima notte della sua vita in albergo. Troppe pastiglie in corpo, parla al telefono con la madre. E poi più niente.
In “Cloudland” la protagonista è una donna sola che sola non è mai, perché pensa di continuo a una bambina. La sua bambina
La sintesi della Hempel crea abissi e vortici, in cui siamo noi a dover completare l’immagine. Ma quello che ci continua a commuovere sono i suoi personaggi, imperfetti, pieni di buchi, fragili. Quegli uomini e quelle donne senza nome che potrebbero essere chiunque, che vibrano di solitudine e sono funamboli di alleanze. Chi è la donna di Un rifugio con tutti i servizi, il racconto più bello della raccolta? “Mi conoscevano come quella che puliva le gabbie dalle cacche puzzolenti con la canna dell’acqua – e lo faceva con piacere. E preferiva fare quello piuttosto che andare al cinema o cenare con un amico. Mi conoscevano come quella che veniva due sere alla settimana, arrivava alle quattro e restava fin dopo le dieci, e sapeva che non era abbastanza, perché non era mai abbastanza al rifugio per animali di Spanish Harlem, gestito dal Comune che continuava a tagliare i fondi”. Questa donna controlla l’elenco delle eutanasie per vedere i nomi dei cani destinati a essere uccisi. E’ lei che li porta a fare l’ultima passeggiata, non si mette i guanti di lattice e il camice di garza, ma cosparge di burro di arachidi un bastoncino di pelle bovina. Se li tiene in braccio questi cani, avvolti nella coperta, quei cani che il giorno dopo moriranno. A un pitbull racconta di un eroe della Seconda guerra mondiale e si commuove per il cane che nella gabbia alza prima una zampa e poi l’altra, porgendola da stringere anche se non c’è nessuno, eseguendo un numero che gli avevano insegnato in passato e per cui lo avevano elogiato; un cane disperato. Quanto ho amato questa protagonista senza nome, che riesce a raccontare un intero mondo: anzi l’intero mondo, tra sofferenza e amore.
Gordon Lish, il famoso editor di Raymond Carver e Richard Ford, è stato l’insegnante di Amy Hempel. Un giorno chiese ai suoi studenti di scrivere un racconto che li avrebbe messi a nudo. Amy arrivò in classe con Nel cimitero dov’è sepolto Al Jolson (lo si trova in Ragioni per vivere). E’ un racconto che assomiglia a Grace Paley, per il continuo parlare, per l’umanità fortissima, misteriosa e intensa delle sue protagoniste.
“Raccontami qualcosa che non mi dispiacerà dimenticare” chiede una donna a un’amica. Qualcosa che sia inutile e leggero, dettagli spezzettati di vita che ci fanno scordare di noi stessi. “Le raccontai che gli insetti volano sotto la pioggia schivando ogni goccia, senza mai bagnarsi. Le raccontai che in America nessuno aveva mai posseduto un registratore a nastro prima di Bing Crosby. Le raccontai che la luna è a forma di banana…”. Non sappiamo niente di queste due donne. Dai pochi dettagli capiamo che siamo in ospedale. Una delle due sta morendo, ma non sappiamo perché sia lì. A un certo punto parlano di una parrucca, di una gamba malata impossibile da guardare. Possiamo fare solo delle deduzioni, ma in fondo sono informazioni senza importanza. Quello che ci interessa sono le amiche. Il racconto di una scimpanzé a cui avevano insegnato a parlare e come prima cosa aveva detto una bugia. Ride l’amica nel suo letto “e io mi aggrappo a quel suono come a una fune che può tirarmi fuori da un burrone”. L’aneddoto di una rapina in banca portata a termine con il cartoccio di un pollo arrosto, mette fame alla donna malata. Sono le storie che salvano la vita, ancora. Che allontanano la morte per qualche ora, per una notte che dura un’eternità. E poi, di nuovo: la voglia di essere nel mondo si rimette in circolo, come in ogni storia di Amy Hempel. “Avevo una cabriolet nel parcheggio. Una volta uscita da quella stanza, l’avrei lanciata a tutta velocità lungo la litoranea, nell’aria profumata di granchi. Una tappa a Malibu per una sangria. In un locale con una musica fragorosa e sexy. Mi avrebbero servito papaia e gamberetti e gelato al cocomero. Dopo cena mi sarei sentita scintillante di lussuria, palpitante di caldo, vibrante di vita, e sarei rimasta sveglia tutta la notte”. Il buio e i fuochi d’artificio.