“La fine del nostro evo”
L’“incredibile occidente”, il “terrore intellettuale”, il cristianesimo secondo due grandi esuli: Eliade e Cioran
Roma. “Nelle ultime settimane non ho fatto che pensare alla fine apocalittica del nostro evo. Ho la convinzione che tutto finirà, molto presto, forse addirittura in trenta, quarant’anni; arte, cultura, filosofia – tutto ciò andrà al diavolo. L’Europa non è in coma. Tutto quel che riguarda la nostra epoca (Kali Yuga), crollerà in modo apocalittico”.
A scriverlo è Mircea Eliade all’amico Emil Cioran. Il primo è il grande specialista di storia delle religioni, il Pico della Mirandola del XX secolo che ha affrontato i grandi miti e le rivelazioni del sacro, per liberarsi dai pregiudizi del progressismo e dell’etnocentrismo. Il secondo è il grande misantropo perdigiorno della cultura francese. Romeni entrambi, scettici entrambi. La loro corrispondenza dal 1933 al 1983 è raccolta da Massimo Carloni e Horia Corneliu Cicortas in “Una segreta complicità”, in uscita per Adelphi.
Eliade e Cioran erano separati dalla questione orientale. “Per tutta la vita ho amato il nichilismo; ma quando lo incontro organizzato e consacrato, come è il caso di alcune scuole indiane, ridivento transilvano”, scrive Cioran a Eliade, che dall’oriente rimase folgorato. Erano uniti invece da un certo sguardo sull’occidente. Eliade gli parla del “disgusto per tutto quel che riguarda la cultura e la letteratura” e che “l’Europa sta crepando – di stupidità, di tracotanza, di luciferismo, di confusione. Il mio disgusto dell’Europa assume, talvolta, forme d’alto tradimento”. Eliade racconta che sull’Europa incombe “una catastrofe che non ha nulla di aurorale e neanche il prestigio dell’Apocalisse. Speravo che almeno mi fosse dato di assistere a un Dies irae, e invece vedo che si tratta di una banalissima filosofia: ‘Alzati, tu, affinché mi sieda io!’”.
Eliade parla dell’“autopsia del cristianesimo”, oltre lo stadio terminale, già morto. Cioran gli risponde che “questi occidentali sono incredibili”, malconci a causa di “quel terrore intellettuale, quell’ortodossia di sinistra che in occidente rende inutile o esasperante qualsiasi discussione”. Discutono a lungo del Sessantotto. Scrive Cioran: “Che cosa pensi degli studenti di Berlino ovest? Se loro, che sono a un passo dal Muro, non hanno capito niente, come stupirsi che gli altri non capiscano niente di niente? Per fortuna che ci sono i cechi: loro hanno perso ogni illusione su quel paradiso-prigione che seduce quegli imbecilli dei tedeschi, condannati a essere sempre fuori strada o in bilico”. Risponde Eliade: “Ho tenuto il corso trimestrale in sole quattro settimane, più tantissimi esami e, come se non bastasse, la ‘ribellione’ degli studenti (sì, i nostri, di Teologia!), che reclamavano il diritto di controllo dei professori (stipendi, ecc.) e ‘parità di ruolo’ negli esami. Negli Stati Uniti l’incoscienza, l’infantilismo e il delirio di colpa (giacché sono ‘bianchi’ e ‘cristiani’) hanno raggiunto limiti tali da non suscitare più, almeno per me, alcun interesse”.
Come Eugène Ionesco, l’altro figlio “degli innominabili Balcani” adottato da Parigi, Eliade e Cioran rimasero sempre due esuli all’interno della cultura occidentale. Come li definì Franco Lucentini, due sradicati che hanno “imparato a servirsi magistralmente della lingua più elegante e stilizzata d’occidente per gridare enormità nel deserto”.