Il mio romanzo italiano

Simonetta Sciandivasci

Le radici, le fughe, le botte e i ricordi. Dalla gioia dell’esordio ai luoghi dove si torna sempre. I libri e la vita di ventinove scrittori. Un viaggio di Annalena Benini in otto puntate su RaiTre

L’Italia è un’invenzione. Una speranza storica che si va facendo realtà, ha scritto Prezzolini. Un romanzo. L’hanno fatta e la fanno, continuamente, gli scrittori. Per cercarla, trovarla, farsela raccontare e dire, Annalena Benini ne ha incontrati ventinove, in otto regioni diverse, a casa loro, nel paese che tutti abbiamo e dobbiamo avere “non fosse per il gusto di andarsene via” e dove “nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti” – non c’è italiano che non conosca questo passaggio di Cesare Pavese, perché non c’è italiano per cui non valga completamente, profondamente. A questi ventinove scrittori Benini ha chiesto di quel paese, della ragione di ogni appuntamento – perché siamo qui, proprio in questa piazza, su questa panchina, tra questi calanchi – e in che modo ogni posto è stato determinante, come ha fatto di loro ciò che sono diventati, che parte ha avuto nella costruzione della loro identità e del loro mestiere. Lo ha fatto in ventinove conversazioni raccolte nelle puntate di “Romanzo italiano”, il programma televisivo che comincia oggi, su Raitre, alle 18, e proseguirà ogni sabato fino a gennaio, e che i suoi ideatori, Camilla Baresani e Paolo Giaccio, hanno definito “geoletterario”.

 

Annalena Benini, che su questo giornale racconta i libri come fossero persone e le persone come fossero libri, e ci insegna – o forse semplicemente dimostra – che uno scrittore è scrittore sempre, anche quando si sbarba, va a letto, mangia la parmigiana, mi dice: “La cosa che più ho capito facendo questo piccolo viaggio è che siamo tutti molto legati ai nostri luoghi. Quella strada, quella piazza, quel mare, quel parchetto dove venivamo picchiati o quel balcone dal quale si affacciava la zia costruiscono prima di tutto l’identità di un essere umano, ed è per questo che i posti sono così importanti anche quando li lasciamo. Molti scrittori che ho incontrato sono andati a diventare scrittori da un’altra parte, ma senza il posto dal quale sono partiti non lo sarebbero diventati mai, tant’è che non fanno che tornarci, per adesione o per contrarietà, e quando ci restano, ci vivono ‘in una colluttazione continua’, come quella che Valeria Parrella mi ha raccontato esserci tra lei e Napoli”.


In “Romanzo italiano” gli scrittori si raccontano,spiegano la “collutazione” con il posto in cui sono nati e dove tornano sempre


 

Penso ad Ágota Kristóf, che non è mai riuscita a tornare a casa sua, in Ungheria, dopo essere scappata in Svizzera per non subire la censura e le angherie del regime comunista, e non ci è riuscita per rigetto, e non ha mai più trovato una casa, ed è rimasta apolide in modo molto infelice e irrisolto, perché una casa grande quanto il mondo è troppo grande. Però Kristóf era ungherese. Fosse stata italiana, chissà. “Quando ho incontrato ad Aliano, in Basilicata, Franco Arminio, il poeta dei calanchi e dei paesi abbandonati o semiabbandonati, mi ha detto che l’Italia è un paese rurale. Credo intendesse dire che tutti noi siamo legati a qualcosa di molto piccolo e antico, a un microcosmo, anche chi non viene dalla provincia. Gli scrittori che ho intervistato a Roma, Melania Mazzucco, Alessandro Piperno e Chiara Gamberale, anche se sono cresciuti in quello che consideriamo il centro del mondo, sono legati a un angolo, a un palazzo, a una vista, qualcosa di laterale che ha acceso i loro pensieri, dove è successo qualcosa che li ha segnati, o dove più semplicemente hanno trascorso un’infanzia felice – si può diventare scrittori anche se si ha alle spalle un’infanzia felice. E’ stato interessante vedere quanta voglia avessero, tutti, anche quelli più restii a parlare di sé, di raccontarmi quei posti, anche per quattro ore, o cinque, o sei: ho avuto la sensazione che, parlandomene, si stessero ricongiungendo a qualcosa di importante”. L’Italia non ti permette di finire apolide, di prescindere da lei. Ti si infila in casa, in famiglia, nell’infanzia, nell’adolescenza, nell’amore, in quello che scrivi. “Quando sono andata a Napoli, mi sono detta che per chi è nato e cresciuto lì, circondato da quella bellezza così esplosiva e densa, e da quell’umanità tanto coinvolgente, forse diventare scrittore è stato più facile. In fondo, lì basta guardarsi attorno e scegliere una storia”. Zadie Smith, una volta, ha detto che non riusciva neppure a immaginare che inferno dovesse essere fare lo scrittore a Roma, una città che è già così tanto, è già tutto, che non può che inibire, farti sentire irrilevante, superfluo. “Credo che la difficoltà, e quindi la sfida più appassionante per la scrittura, stia soprattutto nel fatto che Roma è così fortemente rappresentata che è piuttosto facile cadere nel cliché. Vale lo stesso per Napoli, forse anche per Bologna. Ad esempio, invece, a Caserta ho capito l’intensità del contrasto contro quel cliché, della lotta tra il desiderio di essere come tutti e l’impossibilità di non esserlo che Francesco Piccolo racconta nei suoi libri”.


È possibile scrivere senza farsi divorare dai propri libri? Forse, la sola risposta possibile è che è bella la vita di chi sa cosa fare, e lo fa bene


 

Chissà se è per questo, per le panchine piene di gente che sta male, le piazze sempre animate, i vicoli sempre aperti, i vicinati sempre affollati, la grande bellezza sempre bellissima, che in Italia si scrive così poco fantasy e così tanta geoletteratura, così tante storie di famiglia, di posti, di persone dentro quei posti. “Io so cosa interessa a me: le famiglie, le relazioni e i luoghi in cui avvengono. Sono cose in cui mi riconosco e che mi piacciono, mi entusiasmano. Vengo catturata dalle relazioni tra gli esseri umani, e gli esseri umani dentro un posto sono più ricchi, li capisci di più, ti danno più elementi”. Sono stati davvero gli scrittori a inventare questo paese? “Gli scrittori danno un nome a una cosa e così fanno in modo che quella cosa esista. Per le città è diverso, più complesso. Antonio Pascale, che incontro nella prima puntata sulla Campania, ha reso Caserta l’universale meridionale e questo fa lo scrittore di talento, quando parla di un posto: fa sì che riguardi tutti, che parli di tutti. Ho visto il carcere di Nisida dopo aver letto ‘Almarina’ di Valeria Parrella e l’ho riconosciuto. Bologna, che conosco bene, insieme a Silvia Avallone l’ho guardata con altri occhi, con lo sguardo della provinciale che arriva da fuori e in quella città trova la sua sfida con il mondo, uno sguardo al quale ho aderito immediatamente, perché sono una provinciale anche io, e mi appassionano quella fame, quel desiderio di conquista, mi piace lo stupore”. Ammesso che la distinzione tra persona e autore abbia senso, hai intervistato 29 scrittori o 29 persone? “Uno scrittore è quello che è davanti allo schermo, chiuso nella sua stanza o ovunque si metta a lavorare. Ed è uno scrittore sempre. Però io, incontrandoli nei loro paesi, nelle loro piazze, nei loro bar, li ho visti nella loro complessità, o forse invece è semplicità, e mi è sembrato che non avessero la maschera dello scrittore e che avessero di colpo 12 anni, o 15, o 20, o 4, e avevano tutti voglia di farmi capire, di raccontarmi il loro pezzo d’Italia e come fosse legato alla loro vita, come l’avesse cambiata per sempre”. E’ stato divertente? “Molto. E faticoso, veloce, elettrico. Ho guidato l’auto (io che non guido mai), ho corso, rincorso, camminato, scritto sui treni, improvvisato, inventato, sono anche scivolata su un marciapiede dei Parioli mentre intervistavo Alessandro Piperno. Non avevo mai lavorato così tanto in gruppo, perché scrivere è molto diverso, in fondo sei sempre tu sola con il tuo pezzo anche in una redazione, e invece in televisione si sta assieme agli altri: ho condiviso ogni momento, con autori, registi, registe, producer, operatori, direttori della fotografia, tutti molto giovani, fattivi, allegri, desiderosi di lavorare bene, di far bene. Uniti in queste giornate infinite, che cominciavano all’alba per sfruttare più luce possibile. Una continua corsa contro il sole che tramontava”. 

 

 

È la prima volta, per te, in tv. Traumi? “Nessuno. Quando Camilla Baresani e Paolo Giaccio, l’estate scorsa, mi hanno proposto il progetto, ho accettato perché mi piaceva, mi interessava. Due giorni dopo quella telefonata, Paolo è morto. Erano anni che cercava di fare questo programma, che deve moltissimo anche a Gloria Giorgianni, produttrice molto ostinata e appassionata”. E’ vero che il mezzo è il messaggio? Ti sei trovata a tua agio, e più o meno libera? “Ovviamente è stato tutto nuovo, per me, tutto molto diverso. Nello scrivere sei tu che, solamente con le parole, devi far immaginare quello che succede. Con il video, invece, hai la potenza delle immagini, hai lo scrittore davanti e tutti possono vedere il suo volto, capirlo di più, senza che glielo spieghi tu. Mi sono però sentita libera nello stesso modo. Cambia semplicemente la resa. In entrambi i casi devi conquistarti una fiducia, demolire la diffidenza di chi ti trovi davanti, ma quella è sempre la mia parte preferita”.


“Gli scrittori sono quello che sono davanti a uno schermo. Incontrandoli nei loro luoghi li ho visti nella loro complessità, o semplicità”


 

Annalena Benini fa sempre molte domande. Alle persone, ai libri, alle cose che legge. A volte anche al suo cane (lo sapete, lo ha scritto sul Figlio molte volte), e certe altre pure ai tavolini. Una cosa che dice spesso è: io vivo dentro ai libri. “Però vivo anche molto nella vita. E mi piace quando mi vengono raccontate storie, perché le trovo concrete, vere. La teorizzazione, invece, non mi appassiona, la trovo distante, slegata da tutto, astratta. Per me raccontare un libro significa far capire che si può toccare, che è prossimo”. In questo, la televisione che, molto più di un giornale, ha il diktat della semplicità, risulta probabilmente più efficace. “Noi avevamo intorno un gigantesco, arioso, stupendo salotto: l’Italia. E questo dava carne viva al racconto. Ma evitare l’astrazione, specie quando diventa sfoggio, è una regola che deve valere anche quando si scrive, forse tanto più quando si scrive”. Viaggiare al fianco degli scrittori e farli parlare di qualcosa di così privato come i posti che hanno costruito la loro identità te li ha fatti sentire più vicini? Una volta hai detto a Marzullo che ti senti più una scrittrice che scrive su giornali che una giornalista. “Sì, ma poi ho anche detto che forse ero patetica. Girando ‘Romanzo Italiano’ mi sono messa completamente al servizio degli scrittori e della loro storia, perché così dev’essere quando vuoi ricevere qualcosa. E non mi sono mai sentita lontana, o estranea. Anche loro erano lì a servizio di qualcosa: della loro città, del loro paese, del pezzettino di mondo che li ha costruiti, fatti scappare, destinati al futuro. Ognuno mi ha regalato qualcosa di molto personale, intimo, e ciascuno con una difficoltà o una naturalezza diversa. Le donne, rispetto agli uomini, mi sono sembrate disposte in modo più immediato a scoprirsi”.

 

C’è qualcosa che tutti gli scrittori italiani condividono? “La gioia dell’esordio. Mi hanno raccontato tutti del primo sì alla pubblicazione che hanno ottenuto, magari dopo molti rifiuti, come il momento più felice della loro vita. Silvia Avallone era nel suo studentato a tradurre dal latino, quando ricevette la telefonata che l’ha resa la scrittrice che è oggi. Sandro Veronesi mi ha raccontato di aver cantato a squarciagola, in macchina. Per tutti è stato un momento di grande meraviglia, di vita che cambiava”. Sono felici, gli scrittori italiani? “Sanno essere anche felici, sì. Come tutti. E come tutti hanno fame, mangiano, dormono, sono persone normali”. Il primo libro di Annalena Benini, “La scrittura o la vita” (Rizzoli), girava intorno a una domanda difficile: è possibile scrivere senza pagare la scrittura con la vita? E’ possibile essere scrittori senza farsi divorare la vita dai propri libri, e da quel “dover scrivere perché non posso non scrivere” di cui parlava Marina Cvetaeva? Le chiedo se, dopo aver rincorso albe e tramonti per avere la luce giusta insieme a 29 scrittori, ha trovato una risposta. “Mi sono sempre interrogata sulla vocazione, e continuo a farlo. La domanda sul consacrare la tua vita interamente a una cosa che forse è anche più grande di te, che è un fuoco che la tua vita la brucia mentre però la nutre, aleggia in tutto il programma, non potevo non farla, non potrò mai smettere di farla. Credo che esista una risposta. E che sia questa: che è bello, è un bel vivere quello di chi sa cosa vuole fare e sa farlo, anche se costa fatica, anche se costa una vita”. E’ per questo che avete scelto scrittori importanti, pienamente realizzati? “Abbiamo pensato che fosse giusto proporre scrittori importanti, ma volti non per forza noti, e che fossero certamente piuttosto giovani, contemporanei, capaci di raccontare storie in movimento e, soprattutto, che fossero ben inseriti nelle loro comunità, che le sapessero raccontare. Camilla Baresani dice che spesso i più bravi, in questo, siano gli autori di genere. E Carlo Lucarelli è stato fantastico nel raccontarmi Bologna”. Venivate riconosciuti per strada? “E’ successo. Soprattutto nei posti più piccoli. Anche se non so se fossimo più noi ad attirare l’attenzione delle persone o la presenza delle telecamere, che mi è parso sempre inorgoglissero tutti – sono venuti a riprendere casa nostra, ora tutti sapranno quanto è bella, quanto è importante”.


“Mi sono messa al servizio degli scrittori, così dev’essere quando vuoi ricevere. Loro erano al servizio della propria storia, del proprio paese”


 

Annalena Benini legge sempre. Tutto. Io non so come faccia, ma è vero. La sua scrivania sembra sempre un terremoto possibile, un crollo in agguato, un’esplosione di romanzi, saggi, tutto. Mi dice che da piccola la prendevano in giro perché aveva sempre la testa piegata su qualcosa di scritto. Le chiedo se leggere sia la cosa che preferisce di più in assoluto. Mi risponde che è la cosa che sa fare meglio. Le chiedo cosa significhi saper leggere un libro, mi dice: “Sapermici appassionare”.

 

Di solito, chi sa appassionarsi è contagioso. Se avete voglia di prendervi una malattia che fa bene, allora, per molti sabati da qui a venire sapete cosa fare: telecomando su Raitre.

 

E buon virus.