Dopo Baratta. Nomi e metodo
La prima nomina clou del 2020? Sorpresa, è la Biennale di Venezia
I tormenti natalizi di Franceschini. Baratta metterebbe tutti d’accordo. Melandri, Christillin, Profumo e altri nomi
Milano. L’ultimo a smentire “nel modo più assoluto”, ieri pomeriggio via Facebook, è stato Goffredo Bettini: è completamente destituita di fondamento la notizia “secondo la quale sarei il vero candidato alla presidenza della Biennale di Venezia… le idee che ho per il mio futuro non prevedono in nessun modo questo esito”. Ma Bettini, si sa, è un personaggio outspoken. Gli altri (bei) nomi che da tempo girano sulla giostra preferiscono far scivolare in silenzio, come si usa quando il gioco si fa interessante e la regola è un condiviso non detto. “La sedia della felicità” potrebbe essere una trama per il 2020 in arrivo. Saranno decine, dozzine, le sedie della felicità pubbliche o di controllo pubblico da far combaciare con la persona giusta nel prossimo anno, cominciando prestissimo. E per un governo che non va d’accordo neppure sul colore della tappezzeria, per partiti incapaci di darsi una qualsivoglia linea di indirizzo, e con un tasso di sospettosità da traffico di influenze sopra la soglia del delirio, riuscire a piazzare la nomina giusta per Cassa depositi e prestiti o il Fondo innovazione può rivelarsi un’impresa impossibile. Ma fra tutte queste sedie della felicità ce n’è una più urgente delle altre (scadenza 20 gennaio) e di luccicante importanza per il profilo internazionale del sistema-paese. E la scelta che verrà fatta potrebbe rappresentare un metodo. Oppure, al contrario, potrebbe evidenziare i soliti vizi del paese. Si tratta di trovare il nuovo inquilino di Ca’ Giustinian, con le sue finestre gotiche affacciate sul bacino di San Marco, che è la sede della Biennale di Venezia. La più grande e prestigiosa istituzione culturale d’Italia, con una proiezione internazionale incomparabile alle altre. A Ca’ Giustinian da molti anni (2008) abita Paolo Baratta. Il presidente, anzi pluripresidente, della Biennale. La guidò in verità anche in un primo mandato tra il 1998 e il 2001, pleistocene della Seconda Repubblica ma anche momento fondativo di una rivoluzione profonda: la guida della Biennale diveniva una Fondazione, soggetto di gestione autonomo e non più ente pubblico. Tornò nel 2008 e fu confermato nel 2011, non senza lotte, giustificate appellandosi al precedente mandato, quello del pleistocene. Il ministro Dario Franceschini la spuntò, ma adesso che di nuovo la scelta è tornata nelle sue mani le possibilità di rinnovo della carica non ci sono più. Né, per un burocratismo difficilmente spiegabile, è semplice decidere per una proroga, magari di un solo anno.
E qui si apre una splendida storia, molto italiana. A chi andrà la sedia della felicità? In un paese che non riesce a spegnere ma nemmeno a riaccendere l’Ilva. In un paese che va di prorogatio in prorogatio, la soluzione – l’unica che metterebbe d’accordo, a parte i pretendenti – sarebbe proprio la proroga. Caverebbe, innanzitutto, le castagne dal fuoco a Franceschini.
Il ministro potrebbe invocare la continuità nel nome della qualità del lavoro svolto, potrebbe rafforzare l’inappellabilità della sua decisione tenendo a bada i troppi che vorrebbero mettere voce, dalla politica romana a quella lagunare. E sa anche, Franceschini, il consenso internazionale di cui gode il presidente, col fiore all’occhiello dell’ultima Biennale Arte che ha chiuso a quota 600 mila visitatori (e non turisti, ci tiene sempre a specificare Baratta). Ma un prolungamento andrebbe bene anche alle autorità locali, che pure sono d’altro segno politico, Luca Zaia di recente aveva detto: “A noi Paolo Baratta va bene, squadra che vince non si cambia, non capisco perché bisogna andare a fare danni sulla Biennale”. E aveva aggiunto: “Il mio appello è che facciano una ‘normina’ e ci lascino Baratta che a noi va bene così”. Sulla stessa linea si era schierato il sindaco Brugnaro. La proroga non si può fare? E noi facciamola. Basta una “normina”. E’ il tam tam tra il Collegio Romano e l’Arsenale. Nel governo, a non volerne sentire sono i Cinque stelle, la retorica anti poltronificio è del resto l’ultimo straccio che gli è rimasto da sventolare.
Ma al di là della soluzione politica – “quieta non movere” al momento è l’unico mantra che governa Roma – tutti i conoscitori della gran partita, in laguna e no, spiegano unanimi che al momento Paolo Baratta, con i suoi ottant’anni da poco festeggiati e benissimo portati, è insostituibile. Profilo tecnico-economico, un curriculum lungo tanto di manager pubblico e privato, poi ministro, lo standing internazionale che c’era già prima, e che i dieci anni che hanno trasformato in meglio Venezia, facendola diventare una delle capitali culturali del mondo, anche grazie alla sua regia, non hanno fatto che accrescere. E alle viste, dentro e fuori dal giro dei nomi che si fanno, non ci sono candidati che vantino lo stesso profilo e diano le stesse garanzie. Perché non basta essere un curatore, il ruolo del presidente è quello di un regista in grado di valorizzare e lasciare autonomi i cinque settori in cui la Biennale è suddivisa. Non basta essere specialista di uno solo dei settori. Non basta un’esperienza tra politica e sistema pubblico, anche se non guasta, non basta essere un chief executive, anche se c’è da saper fare anche questo. Così veleggiano interlocutorie ambizioni rigorosamente negate. Approfittando, anche, del giro di nomine globale che aprirà e chiuderà molte partite su molte scacchiere. Al Collegio Romano si tace, anche se è da lì che uscirà il decreto di nomina oppure la “normina” della proroga, che poi necessita del via libera delle commissioni Cultura di Camera e Senato, e dunque di un preventivo concerto politico. A circolare da tempo ci sono profili differenti. Quelli dal pedigree politico come Giovanna Melandri, ex ministro della Cultura e presidente Maxxi, o quello di Evelina Christillin, che guidò da manager le Olimpiadi torinesi e “queenmaker” della cultura nella sua città, poi alla guida dell’Ente del turismo; o l’archistar milanese Stefano Boeri. Ognuno ha i suoi pro e i suoi non trascurabili contro: ad esempio la troppa vicinanza politica all’area del ministro per Melandri, o per Massimo Bray, altro ex ministro evocato. Christillin ha un curriculum di rispetto, ma secondo qualcuno può risultare ingombrante in laguna il cognome e il rango del marito. Oppure, è esattamente il contrario. La scorsa settimana a Venezia sono stati inaugurati i Giardini Reali, resuscitati (anche) per merito di Generali. Inoltre è una donna, e sarebbe la prima, e per la Biennale “sarebbe un segnale importante”. Donna è anche Giovanna Melandri, e ha dalla sua una esperienza amministrativa e anche internazionale nel settore. Secondo qualcuno, una scelta più che possibile. Stefano Boeri, ammesso ma non concesso che sia davvero interessato: deve fare i conti con plurimi impegni internazionali legati alla professione, col suo impegno total impact nei territori della rigenerazione green, più la presidenza della Triennale di Milano, che sta plasmando a sua immagine. Di sicuro, a Ca’ Giustinian è meglio un generalista che uno specialista. E’ questa la chiave del busillis. Prima di scegliere il nome, bisogna tracciare un identikit. Ma per disegnarlo bisogna avere in mente cosa è diventata la Biennale, nel decennio di Baratta. La Biennale, con il grande potenziamento delle sezioni Arte, Architettura, unite al rilancio del Cinena (a proposito, dalla nomina a Ca’ Giustinian dipende anche la scelta del successore di Alberto Barbera, che scadrà a fine 2020) e delle “arti minori” Teatro Cinema e Balletto. Poi il potenziamento delle sedi espositive, i rapporti con l’estero.
La Biennale ha avuto e ha un ruolo fondamentale per la proiezione internazionale di Venezia. Se oggi oltre all’Arsenale o a Fondazione Cini, ci sono la Fondazione Pinault, la Fondazione Prada e una miriade di gallerie e mostre è merito dell’ecosistema creato dalla Biennale. Venezia è diventata una tappa fondamentale del mondo globale dell’arte. Un ecosistema, esattamente come la sua laguna, che però è appunto molto delicato e va preservato. Nella direzione di fare di tutta la città un fattore propulsivo, anche dal punto di vista economico, per tutto il paese. Venezia, è un altro dei mantra di Baratta, non è un museo a cielo aperto, è un luogo che produce cultura. Per sostituire Baratta, rimugina in questi giorni prenatalizi Franceschini, serve una figura non troppo politica ma non digiuna di relazioni, non troppo specialistica ma con doti da regista, non troppo esterna a un sistema-città delicato e complesso. Insomma, servirebbe Baratta, per chiuderla in una battuta. Oppure chissà, qualche personalità estranea al settore, ma con doti di guida e uno standing internazionale sopra la media. Non è un caso che qualcuno sussurri il nome di Alessandro Profumo, ultimo (cronologicamente) dei banchieri “di cultura” e in scadenza come ad di Leonardo la prossima primavera. In ogni caso un bel test, per l’Italia.