Eccesso di devozione
Sì, Marx è un classico e va bene. Ma adorarlo come fosse il Messia è un po’ troppo. Dibattito
L’editore Donzelli ha pubblicato un grosso volume intitolato Marx Revival. Concetti essenziali e nuove letture, a cura di Marcello Musto (professore di Sociologia alla York University di Toronto). Si tratta di una raccolta di saggi su aspetti centrali dell’opera di Marx, scritti da studiosi del marxismo europei, americani e asiatici. L’obiettivo del volume non è solo quello di illustrare l’opera, poderosa, del pensatore di Treviri, al fine di comprenderla meglio, ma, ben più, di asserirne la “attualità” e la “validità”, per capire a fondo il mondo contemporaneo. Scrive infatti il curatore del volume, Musto, nella prefazione: “In seguito alla crisi economica del 2008, Karl Marx è ritornato di moda. Da allora, in numerosi quotidiani, riviste e libri accademici è stato costantemente osservato che il suo pensiero risulta ancora indispensabile per comprendere le contraddizioni del capitalismo e i suoi meccanismi distruttivi”.
Nessun dubbio che Marx sia un classico del pensiero occidentale e che, dopo Marx, non sia più possibile pensare come si pensava prima di Marx. Come osservò un eminente critico italiano, Benedetto Croce (nei suoi saggi sul materialismo storico scritti alla fine dell’Ottocento), il pensatore di Treviri ha inaugurato un nuovo modo di guardare la storia. Sono infatti, diceva Croce, “feconde scoperte, per intendere la vita e la storia, l’affermazione della dipendenza di tutte le parti della vita tra loro, e della genesi di esse dal sottosuolo economico, in modo che si può dire che di storia ce n’è una sola; il ritrovamento delle forze reali dello stato (quale esso si presenta in certi suoi aspetti empirici) col considerarlo istituto di difesa della classe dominante; la stabilita dipendenza delle ideologie dagli interessi di classe; la coincidenza dei grandi periodi storici coi grandi periodi economici; e le tante altre osservazioni ond’è ricca la scuola del materialismo storico”.
Marx, dunque, è un “classico”. Ma questo non significa che dobbiamo farne un Vangelo, e avallare ogni sua analisi e ogni sua affermazione. Noi dobbiamo studiare e meditare tutti i “classici”, da Platone e Aristotele a Kant, da Hegel a Weber: ma studiare e meditare vuol dire ripensare e valutare criticamente, cioè individuare in ogni pensatore ciò che è vivo e ciò che è morto, ciò che serve alla comprensione del mondo in cui viviamo, e ciò che non serve più, perché ormai superato e obsoleto.
Senonché, l’atteggiamento di Musto e dei coautori del volume di cui discorriamo, è tutt’altro: è una sorta di sacralizzazione di Marx. C’è una cosa, infatti, che colpisce subito nel volume donzelliano: tutti i grandi critici di Marx (Boehm-Bawerk, Bernstein, Pareto, Kelsen) non figurano affatto, non hanno spazio alcuno. E’ evidente che questo è un modo sbagliato di fare i conti con un pensatore: sarebbe come studiare Kant prescindendo completamente dagli studi che gli sono stati dedicati nel corso di due secoli.
Prendiamo il formidabile attacco che Eduard Bernstein (il più stretto collaboratore di Engels) sferrò all’opera di Marx alla fine dell’Ottocento. Bernstein rifiutava in primo luogo la previsione formulata da Marx secondo cui la società capitalistica altamente sviluppata avrebbe determinato la scomparsa delle classi intermedie e si sarebbe divisa in due soli campi nemici: uno (relativamente ristretto) di capitalisti, e uno (largamente maggioritario) di proletari. I tratti dello sviluppo capitalistico sui quali Bernstein più insisteva erano essenzialmente tre: in primo luogo, la grandissima estensione della forma della società per azioni, che permetteva un vasto frazionamento (dal punto di vista della proprietà) di capitali già concentrati e la creazione di un numero crescente di azionisti piccoli e medi; in secondo luogo, il fatto che in tutta una serie di branche industriali la grande azienda non assorbiva continuamente le piccole e medie aziende (le quali mostravano una indubbia vitalità), sicché era illusorio attendersi la loro scomparsa o la loro riduzione a un residuo insignificante; in terzo luogo un notevole sviluppo delle classi intermedie, reso possibile dal grande aumento della produttività del lavoro e dal sempre crescente sovraprodotto creato dagli operai dell’industria. Da tutto ciò Bernstein ricavava che: “Ben lungi dall’essersi semplificata rispetto a quella precedente, la struttura della società si è in larga misura graduata e differenziata, sia per quanto concerne il livello dei redditi sia per quanto concerne le attività professionali”.
Un altro problema ancora: Marx ha elaborato una dottrina dello stato? Se lo chiedeva Norberto Bobbio alla metà degli anni Settanta del secolo scorso, e rispondeva negativamente. Parlando del saggio marxiano su La guerra civile in Francia (dedicato alla esperienza della Comune parigina), e delle indicazioni qui date sulle istituzioni della Comune (la quale, diceva Marx, non era solo un organismo parlamentare, bensì legislativo ed esecutivo al tempo stesso, e tutti i funzionari pubblici potevano essere revocati in qualunque momento), Bobbio sottolineava l’esiguità di tale dottrina, soprattutto se paragonata alla ricca tradizione del pensiero liberale, che conta opere come quelle di Locke e di Kant, di Constant e di Tocqueville. E soprattutto Bobbio rilevava che in Marx il problema del buon governo non si risolveva con la sostituzione di una forma “buona” a una forma “cattiva”, ma con l’eliminazione di ogni forma di governo politico, cioè con l’estinzione dello stato e della politica: ma questa era una prospettiva gravemente irrealistica.
Questi sono solo alcuni dei grandi problemi che la lettura degli scritti di Marx solleva: problemi dei quali nel volume donzelliano non c’è traccia. Ma per meditare Marx bisogna misurarsi anche con questi problemi. Assumere invece un atteggiamento da sacrestani in costante adorazione del Maestro, non è un buon servigio reso a Marx, cioè al ripensamento della sua vasta, complessa, e certo poderosa opera.
Universalismo individualistico