Un Leone politico
Gli anni della scuola, dalla Russia all’Italia, e poi l’eroica militanza. Il genio intellettuale e contagioso di Ginzburg in una nuova biografia
"Pater patriae” era un riconoscimento onorario che l’antica Roma attribuiva a pochi meritevoli eletti. Oggi definire Padri della Patria gli eroi che hanno portato il paese fuori dal fascismo è legittimato più da un sentimento popolare di gratitudine che da un’accertata opinione storiografica. Sulla pietra tombale di Leone Ginzburg, per dire, un loculo fra gli altri al Verano di Roma, non c’è scritto Padre della Patria, ma: “Uomo sereno e giusto che all’ideale di un’umanità migliore votò se stesso fino al sacrificio estremo”. L’avrà dettato la vedova, Natalia Ginzburg? O i partigiani sopravvissuti che avevano combattuto con lui? Certo non è possibile scrivere su una tomba “Padre della Patria”, se si è solo un familiare. Il titolo, comunque, deve venire dall’alto: da una nazione che si riconosce debitrice del sangue di un eroe e che si preoccupa di tramandarne la memoria e l’esempio attraverso l’insegnamento scolastico, e l’intitolazione di strade, piazze, istituti o, e soprattutto, attraverso la pubblicazione di libri e altre forme scritte, o cinematografiche magari, di ricordo.
Nato a Odessa il 4 aprile 1909 e morto a Roma il 5 febbraio 1944, è senz’altro quello che in India si definirebbe “Grande Anima”
Leone Ginzburg nato a Odessa il 4 aprile 1909 e morto a Roma il 5 febbraio 1944, è senz’altro quello che in India si definirebbe Mahatma, ovvero una “Grande Anima”, dalla vita breve e determinata, dal pensiero lucido e coerente, dall’azione coraggiosa e ricca di conseguenze. E’ stupefacente che la casa editrice Enaudi, da lui fondata con Giulio Einaudi nel lontano 1933, non ne abbia mai pubblicato una biografia. Finalmente adesso questo atteso, necessario “ritratto”, come si legge in copertina – di Leone, ma anche inevitabilmente della sua grande generazione – è uscito. Non da Einaudi, ma da Neri Pozza. L’ha scritto uno storico prestigioso dell’università di Torino, Angelo D’Orsi, già autore fra il molto altro de La cultura a Torino fra le due guerre (Einaudi) e Gramsci. Una nuova biografia (Feltrinelli). La meritevole biografia di Ginzburg s’intitola semplicemente L’intellettuale antifascista, due parole che mettono insieme le (grandi) anime di quest’uomo eccezionale: quella colta e quella politica.
Apprendendo la notizia della sua morte il compagno di lotta Piero Calamandrei, di dieci anni più “vecchio”, scriveva nel diario il 1° aprile (la notizia si era diffusa con ritardo nella rete partigiana): “Su lui giustamente si fondavano tante speranze per la ripresa d’Italia: è uno dei martiri, da mettere accanto ai Rosselli”. Il Centro studi Calamandrei di Jesi gli ha dedicato Alla fine della nuvola, un bel documentario, realizzato da Federica Biondi, in cui si vede proprio Angelo D’Orsi che interpreta il protagonista. Il video sta in questi giorni girando nei licei. Nel discorso ai giovani sulla Costituzione pronunciato a Milano il 26 gennaio 1955, Calamandrei esorta: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati”. In una di quelle carceri, a Regina Coeli, Leone Ginzburg fu picchiato dai tedeschi con estrema brutalità. Era provato, fragile. E non ne uscì vivo.
L’intera sua vita, raccontata da D’Orsi, è sorprendente, in anticipo su tutto, toccante. Fin dalla nascita, che lo consacra a due paesi, la Russia e l’Italia, perché figlio di due padri, quello naturale, italiano, Renzo Segrè, “di cui s’ignora quasi tutto” ammette l’autore, e quello russo, Fëdor (Teodoro) Ginzburg che lo riconobbe e fu per lui una presenza affettuosa. In un certo senso anche di madri ne ebbe due, Leone: Vera Griliches, quella biologica, moglie di Teodoro, e la zia Maria, sorella di Renzo e amica di Vera, che lui chiama “zietta” e con cui cresce per periodi anche lunghi, in Italia, e a cui davvero si affezionò come a una seconda madre scrivendole lunghe lettere amorose e spesso spiritose. Se s’ignora o si sottovaluta questa doppia appartenenza, italiana e russa, (di cui erano a conoscenza tanti suoi amici torinesi fin dal tempo della giovinezza, prova che Leone non ne faceva mistero) non si può mettere a fuoco la storia sorprendente di questo russo che all’Italia ha consacrato il suo genio di intellettuale, traduttore, letterato e la sua grande passione politica. Come scrisse Natalia in Lessico famigliare: “Leone, la sua passione vera, era la politica”. D’Orsi ha fatto in tempo, nei lunghi anni consacrati alla sua ricerca, interrotti “dai tanti ostacoli” come adombra nell’introduzione, a intervistare testimoni ormai scomparsi. Per esempio, Gina Allan, compagna di studi di Ginzburg a Torino: che conferma: “Aveva già un’infinità di doti, facilità nelle lingue, amore per la musica, interessi di tutti i generi, ma la cosa più importante, per la quale è morto, è la politica”. Per esempio un’altra amica, la resistente Marisa Diena, scomparsa nel 2013 quasi centenaria, che anche lei dichiara nel libro: “Era la sua passione la politica, lui si occupava di letteratura, però lui era un uomo politico”.
L’intera sua vita, raccontata da D’Orsi, è sorprendente. Fin dalla nascita, che lo consacra a due paesi, la Russia e l’Italia
Uomo politico, uomo “giusto”, come tanti testimoni sottolineano e tramandano in opere, diari, lettere, memorie. Per dirla con Angelo D’Orsi, in una felice sintesi: Leone era “politicamente intransigente e transigente culturalmente”. Che è poi la sua meravigliosa caratteristica. Ovvero: la dirittura morale, che per Ginzburg era indispensabile al fare politico, lasciava un grande margine in lui alla tolleranza, alla comprensione, all’accettazione, soprattutto quando il contesto da sociale diventava artistico, letterario. Grazie a questa “transigenza” poteva essere il miglior amico di Cesare Pavese, di tutt’altra stoffa – per quanto riguarda il sacrificio personale e l’impegno politico – rispetto alla sua: uno che in montagna coi partigiani ci andava solo nei romanzi, uno che aveva fatto la scelta opposta semmai, quella di imboscarsi. Ma, come diceva Don Abbondio, “il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”. E Pavese era uno che, finito al confino per amore (aveva accettato di ricevere presso il suo indirizzo lettere compromettenti destinate alla donna di cui era invaghito, la comunista Tina Pizzardo) si abbassò poi a chiedere la grazia a Mussolini. La stessa Pizzardo, del resto, nelle sue memorie testimonia la grandezza d’animo di Leone che “generosamente difendeva e perdonava persino quelli che per salvarsi lo avevano accusato”. Non allude certo a Pavese, che per Leone provava una forma di spavalda ammirazione, intrisa d’inconfondibile ironia, e che fu distrutto dalla morte dell’amico. Ma ci poteva essere qualcuno non affascinato, o che non si lasciasse travolgere dal temperamento di Ginzburg, dalla sua sterminata cultura, dalla sua allegria a volte spensierata?
Nessuno, nemmeno il riveritissimo Benedetto Croce, che tentò (inutilmente) di frenarne gli eroici ardori prevedendone gli esiti drammatici. Pensava Croce, sbagliando, che Leone fosse nato per lo studio e che occuparsi di politica “non era affar suo” (scrive D’Orsi citando Franco Antonicelli). Ma probabilmente il prudente Benedetto sapeva di sbagliarsi e infatti alla fine non negò, in quanto senatore, il suo aiuto quando, caduto Mussolini, il suo amato “discepolo” dal confino di Pizzoli smaniava di riprendere un posto nella Storia e proprio a lui si rivolse per accelerare il ritorno a Roma, che avrebbe significato clandestinità, e poi carcerazione e morte. “Se ella crede di poter intervenire in mio favore, intanto per farmi liberare subito…” scrive Ginzburg a Benedetto Croce, e così: “Croce si dà immediatamente da fare”.
Cresce e affascina le belle donne, intellettuali e no, dei salotti torinesi, ma intanto medita una casa editrice e la fonda
Quello che colpisce di più, leggendo questa biografia, è la pienezza di un destino, per quanto veloce come una meteora, trentacinque anni, e la sua coerenza. Da quando vediamo Leone, bambino prodigio, che si muove fra Odessa, Viareggio e Berlino, e impara facilmente le lingue e studia il pensiero di Giuseppe Mazzini, e abbaglia con la sua genialità gli illustri professori del leggendario liceo torinese, il D’Azeglio, e trascina i compagni in imprese più grandi di loro. E a quindici anni eccolo che supervisiona la traduzione di Dostoevskij, per la prima volta direttamente dal russo senza passare per il francese come si era fatto fin lì e come lui contesta, e poi cresce e affascina le belle donne, intellettuali e no, dei salotti torinesi, ma intanto medita una casa editrice e la fonda con la lucida complicità e le capacità organizzativo-finanziarie di Giulio Einaudi, e finisce continuamente in prigione, come ebreo e come cospiratore – il più temuto dalla polizia fascista in quella magnifica tempestosa città di quegli anni in cui si era mosso Piero Gobetti, e dove cospirano “alla luce del sole” Carlo Levi, Adriano Olivetti, Felice Casorati, Vittorio Foa… Da Giustizia e Libertà al Partito d’Azione, Leone sa che “la storia ha esigenze inesorabili, che è meglio riconoscere con virile chiaroveggenza” (quelle esigenze che oscuramente avverte lo perderanno). Ma questo non gli impedisce di innamorarsi, e mettere su famiglia e avere tre figli. Ed è sempre lui a riconoscere per primo il talento dei suoi amici scrittori, Cesare Pavese e Natalia Levi che poi sposerà. E’ lui a farli pubblicare, anche in questo conducendo piccole battaglie, con la forza di una convinzione che sa convincere gli altri.
Secondo il ritratto che ne scrisse Norberto Bobbio, Leone già da giovanissimo non “era un ragazzo come tutti gli altri, neppure nell’aspetto: capelli neri, duri, tagliati a spazzola, barba rasa già fitta, […] sopracciglia foltissime, sguardo calmo, sicuro, che metteva soggezione e incuteva rispetto; […] parlava lentamente, pacatamente, con un certo sforzo, quasi dovesse cercare le parole, ma trovava sempre quella esatta; le sue frasi erano composte, compiute, lunghe ma non mai tortuose; non perdeva il filo anche nei ragionamenti più difficili; parlava adagio, ma era come se scrivesse”.
La sua generazione, una stirpe di combattenti per la libertà che furono anche insigni pittori e scrittori, industriali, magnifici editori
Raccontare Leone Ginzburg è inevitabilmente raccontare la sua generazione, quella stirpe di combattenti per la libertà che furono anche insigni pittori e scrittori (come Carlo Levi), grandi industriali (come Olivetti), magnifici editori (come Giulio Einaudi), intellettuali originali e inclassificabili (come Nicola Chiaromonte). Anche Chiaromonte intreccia a un certo punto il suo destino con quello di Leone, perché collaborano entrambi – facendo parte del gruppo – ai “Quaderni di Giustizia e Libertà” diretti da Carlo Rosselli, rifugiatosi in Francia. Anche se Chiaromonte è in polemica con Rosselli, perché, come scrive D’Orsi, “spostato su una posizione di sostanziale rifiuto del gobettismo (e delle sue contaminazioni col gramscismo) e di un elitismo metapolitico di sorta, che gli sarà rimproverato da altri”. Da altri, ma non da Leone. Chiaromonte era, anche lui fuoriuscito in Francia, amico di un altro grande irregolare quale fu Andrea Caffi e del fratello di Natalia, Mario Levi, cospiratore antifascista scappato rocambolescamente e lui pure in esilio a Parigi, per non finire in mano alla polizia mussoliniana.
Dedica un appassionato ritratto a “Nicola Chiaromonte, una vita fra giustizia e libertà” Filippo La Porta nel suo recente Eretico controvoglia (Bompiani). Un eretico che fuori dalle tempeste del fascismo e della guerra trovò una sua dimensione spirituale (e chissà se una simile dimensione sarebbe stata punto di arrivo anche per Leone Ginzburg, se la storia gli avesse concesso di invecchiare) che gli fece concludere, in una lettera del 10 febbraio 1969: “Dire il vero è più importante di fare il bene”, perché – aggiunge La Porta – “Capire il mondo, sforzarsi d’interpretarlo è più importante che modificarlo (che è sempre un’illusione). E’ qualcosa profondamente condiviso anche da Natalia Ginzburg che fece del “dire la verità” la propria poetica, incontrando senza ostacoli su questa strada il rigore etico del marito, che ne fece fulcro del proprio impegno civile e politico.
E vorrei citare anche il bel saggio di Mirella Serri, scritto con piglio romanzesco, Gli irriducibili. I giovani ribelli che sfidarono Mussolini (Longanesi) in cui vengono seguite le vicende di un manipolo di altri irregolari (che bisogno avremmo oggi di irregolarità intellettuale) da Giorgio Amendola e Manlio Rossi-Doria ai fratelli Enrico, Enzo (con la moglie Ada Ascarelli), Emilio Sereni. Storie di un primissimo antifascismo, non solo ebraico, che oggi risuonano come un monito.
E’ importante e significativo che questi libri siano usciti adesso e contemporaneamente, sullo sfondo dei nostri giorni confusi, velleitari e pericolosamente alla deriva, non solo dal punto di vista politico.