Le illustrazioni di James Dromgole Linton del "Mercante di Venezia" di William Shakespeare (1914 ca)

I truci ai tempi di Shakespeare

Nicola Fano

Razzismo e antisemitismo li aveva già spiegati nell’“Otello” e nel “Mercante di Venezia”. E’ ignoranza, non fascismo

Gli ultimi sei mesi fuori dal campo sono stati difficilissimi. Quando sono arrivata, avrei voluto scoprire altre città, viaggiare e cogliere opportunità nei giorni liberi. Sono molto curiosa e mi piace andare in giro, ma a Torino non c’è la varietà che speravo di trovare. E spesso sembra una città rimasta una ventina di anni indietro per quanto riguarda l’apertura generale a persone diverse. Mi sono stufata di entrare nei negozi e sentirmi come se il proprietario si aspetti che io rubi qualcosa. Troppe volte si arriva all’aeroporto di Torino e con i cani vieni trattata come Pablo Escobar”: nella loro semplicità, queste parole di Eniola Aluko, trentaduenne nigeriana naturalizzata britannica e per un anno e mezzo giocatrice della squadra di calcio Juventus Women, esprimono un cortocircuito molto complesso. Quello che conduce a sovrapporre le “diversità” e a trascinare il razzismo dall’ambito etnico o religioso a quello di genere e viceversa. Un fenomeno in questo momento particolarmente in voga in occidente (e dunque anche in Italia) ma che caratterizza non da oggi la nostra cultura sociale.

 

Non occorre riandare al conflitto mitico tra Antigone e Creonte (raccontato da Sofocle nella celebre tragedia) che Ismene bolla come un confronto impossibile: “Noi siamo femmine… non siamo in grado di combattere gli uomini, tanto più gli uomini che comandano! Dobbiamo obbedire ai loro ordini, anche a quelli più ingrati”. Si può rimanere nell’orto della modernità per capire questo truce fenomeno: ci aiuterà Shakespeare. Che il tema ha saputo trattare con chiarezza, libero da pregiudizi ideologici e da intenzioni moraliste. Può essere utile per capire meglio ignoranza e violenze.

 

E, dunque, partiamo dalla fine. Shakespeare ha scritto due testi centrati sulla questione. Uno, “Il mercante di Venezia”, tratta l’antisemitismo; l’altro, “Otello”, tratta il femminicidio. In entrambi i casi la questione della discriminazione del “diverso” è argomentata (oltre che nel complesso del copione) in una lunga battuta che, per l’autore, ha un definitivo valore esplicativo. E, infatti, nel corso dei secoli queste due tirate d’attore hanno rappresentato un vero cavallo di battaglia per numerosi interpreti.


Un fenomeno particolarmente in voga in occidente (e dunque anche in Italia) ma che caratterizza non da oggi la nostra cultura sociale 


Il monologo di Shylock è celeberrimo. Shylock, banchiere ebreo di Venezia, ce l’ha con il mercante del titolo, Antonio. E, con quel suo argomentare, cerca di spiegare al pubblico perché sta cercando di vendicarsi: “Mi ha rovinato. Ha riso delle mie perdite. Deriso i miei guadagni, offeso il mio popolo. Ostacolato i miei affari. Mi ha messo contro gli amici. E istigato i miei nemici. E per quale ragione? Perché io sono un ebreo. E un ebreo non ha mani? Non ha occhi, un ebreo? Organi, gambe, braccia. Sensi. Affetti, passioni? Non è nutrito dallo stesso cibo. Ferito dalle stesse armi. Soggetto alle stesse malattie. Curato dalle stesse medicine. E non soffre il caldo d’estate e il freddo d’inverno come un cristiano? Se mi pungete, non sanguino come voi? Se mi fate il solletico, non rido? Se mi avvelenate, non muoio anch’io? E se mi offendete, non dovrei vendicarmi? Se un cristiano è offeso da un ebreo, quel cristiano come mostra la sua famosa carità? Vendicandosi, sicuro! E se un ebreo viene offeso da un cristiano, perché dovrebbe comportarsi in modo diverso? Ci avete insegnato la vendetta e ora vorreste che facessimo a meno dei vostri insegnamenti?”.

 

“Il mercante di Venezia” fu scritto, presumibilmente, tra il 1594 e il 1596. “Otello”, con qualche sicurezza, fu scritto nella seconda parte del 1603. Eppure, a tanti anni di distanza, Shakespeare utilizzò lo stesso artificio retorico del monologo di Shylock (noi ebrei siamo uguali a voi e se voi ci attaccate noi vi rispondiamo con la vostra stessa moneta…) per “difendere” le donne dall’aggressività degli uomini. Verso la fine del copione, quando lo “stupido e violento” Otello, insufflato ad arte da Iago, accusa Desdemona di tradimento (e la malmena in pubblico, prima di ucciderla in privato), la donna si interroga sul perché del comportamento del suo uomo con Emilia, la sua dama di compagnia (per altro, moglie di Iago, nonché colei che, a femminicidio compiuto troverà il bandolo per smascherare il marito). Ebbene, Emilia dice: “Io credo che, quando la moglie cade in errore, la colpa è del marito che trascura i suoi doveri e versa in altri grembi il tesoro che è nostro, o si abbandona a meschine gelosie, o ci impone freni eccessivi. O se ci picchia, o per dispetto ci riduce il denaro che avevamo. Anche noi abbiamo fiele, e se non ci manca qualche virtù, pure sappiamo vendicarci. Lo sappiano i mariti che le donne hanno sensi come loro; vedono e odorano e sentono il dolce e l’amaro proprio come i mariti. Perché loro vanno con altre donne? Per passatempo? Credo di sì. Lo fanno spinti dall’amore? Credo di sì. Lo fanno per debolezza? Credo ancora di sì. E in noi donne non esiste amore, desiderio di passare il tempo e debolezza come negli uomini? Che ci trattino bene, dunque; oppure sappiano che se facciamo il male, lo impariamo da loro”.

Nelle opere il più potente sottomette il meno potente. Sempre. Un confronto nel segno della dialettica politica

 

 

“Se facciamo il male, lo impariamo da loro”: non è una chiamata in correità, ma una dimostrazione di uguaglianza. Shakespeare non era un poeta, non era un filosofo, non era un leader politico, non era un intellettuale: era un teatrante. E, perciò, un uomo pratico. Parlava alla pancia delle persone non alle loro coscienze. Sicuramente aveva delle idee sul mondo (e nelle sue opere sovente le esponeva), ma non voleva convincere nessuno. Intendeva emozionare il pubblico, e basta. Perché emozionando il pubblico guadagnava bene: e questo era il suo obiettivo principale nella vita. Tale sua prerogativa, unita alla sua indubbia genialità scenica, gli permetteva di guardare il mondo da un punto di vista straordinario: vedeva le cose per come sono. Senza filtri poetici o ideologici o politici. “Se facciamo il male, lo impariamo da loro” vuol dire semplicemente che siamo tutti uguali; siamo tutti un agglomerato di virtù e difetti la cui distribuzione nel cuore e nel corpo di noi stessi non dipende da religione o genere, ma solo dall’accumulo delle esperienze vissute. Ecco il suo sommo e semplice manifesto d’antirazzismo.

 

“Il mercante di Venezia” è stato spesso tacciato di antisemitismo nel corso dei secoli. Effettivamente, Shylock non ci fa una bella figura: il suo incaponirsi a richiedere la penale di una libbra di carne di Antonio (“quanto più vicina al cuore”) sta a dimostrare che egli vorrebbe proprio ucciderlo. E punto. Si è detto che questo suo atteggiamento abbia alimentato il pregiudizio antisemita. La questione ebraica non era all’ordine del giorno, nell’Inghilterra a cavallo tra Cinquecento e Seicento. A Londra, ebrei non ce n’erano, all’epoca: Edoardo I, nel 1290, li aveva banditi dall’isola e non vi erano più stati ammessi. Semmai, l’Inghilterra aveva un pregiudizio anticattolico, ma al tempo di cui stiamo parlando – gli ultimi anni del Seicento – esso non aveva più i connotati violenti dei decenni precedenti. Tanto più che, secondo molti studiosi e qualche leggenda non priva di fondamenti storici, Shakespeare aveva avuto una formazione cattolica dal padre John (quando essere cattolici era, appunto, vietato). Di ebrei, al contrario, ce n’erano molti a Venezia. E gli attori europei di quel tempo non avevano in simpatia i banchieri ebrei: costoro erano gli unici disposti a fare affari con la gente di teatro, appunto, ma pretendevano provvigioni molto alte. Le fortune economiche degli attori erano volatili: capitava che avessero bisogno di monetizzare i loro risparmi all’improvviso. E questo, evidentemente, aveva un costo per chi doveva custodire quei risparmi.

“Se facciamo il male, lo impariamo da loro”: non è una chiamata in correità, ma una dimostrazione di uguaglianza

 

 

Come è noto, gli ebrei non erano banchieri per diletto ma per obbligo di legge: potevano esercitare solo la professione di venditore di stracci o di denaro. Sterco di Dio, in entrambi i casi, che essi non avrebbero potuto sporcare con le loro mani lorde, secondo le autorità cattoliche. Insomma, come tutti i suoi colleghi, anche Shakespeare non aveva simpatia per i banchieri ebrei. Ecco perché per costruire il suo straordinario personaggio usò un banchiere ebreo. Eppure, come dire? Shakespeare non voleva raccontare la storia di un ebreo bensì quella di un uomo “antipatico” e solitario, che non sa o non riesce a socializzare e accettare il mainstream: Shylock non è trendy, non partecipa alle feste, non va ai balli in maschera, non veste alla moda, non gli piacciono i banchetti. E’ scostante e scorbutico. Per ciò è osteggiato da tutti; per ciò è additato come un diverso, non perché è ebreo. Questo è quel che ci dice Shakespeare. Il quale, per rovescio, anche un’altra cosa ci dice. Ossia: il razzismo è figlio dell’ignoranza. Quel tale triestino, consigliere comunale, che ha stigmatizzato Liliana Segre perché ha osato insultare Cristo dicendo che era ebreo, non è un razzista: è una vittima dell’ignoranza. E il suo razzismo non si esprime nel fatto che egli non sa che Cristo era ebreo – secondo la Bibbia (che di quel tale dovrebbe essere il Libro di riferimento) – ma nel fatto che egli si sente offeso dal fatto che qualcuno della sua parrocchia è ebreo. Una torre di Babele di pericolosa insipienza. Antonio, Bassanio, Graziano e Lorenzo (la congrega dei cristiani del mercante di Venezia) hanno un progetto: espungere dalla società chi non si adegua al loro stile di vita. Viceversa, il razzista-tipo d’oggi è solo un cretino che s’impone con violenza: impossibile attribuirgli un vero progetto perché la sola articolazione critica e strategica di un progetto complesso gli è preclusa.

 

Diverso il discorso di “Otello”. Qui Shakespeare ci propone ben altro conflitto. La battaglia è quella che Iago ordisce contro il generale che non lo ha voluto come luogotenente (per lui, Otello ha preferito Cassio perché “le promozioni vanno per raccomandazioni e simpatia, e non per anzianità e grado, come una volta, quando ogni secondo succedeva al primo”). Non solo. Iago ce l’ha con il Moro perché “in giro dicono che tra le mie lenzuola egli abbia fatto le mie veci: non so se sia vero, ma in questi casi, per un semplice sospetto, agirò come per una certezza”. Fake news, insomma.

 

Vittima di questa contesa, incidentalmente, sarà una donna. Una donna che Otello, insicuro e incapace di controllare i propri sentimenti, uccide perché non sa capirla; una dona ch,e forse senza volerlo, Iago sacrifica sull’altare della sua contesa tra maschi: “Sta a noi essere così o così. I nostri corpi sono i nostri giardini; e la volontà è il giardiniere; sicché, se noi pianteremo ortiche o semineremo lattughe, se forniremo quei giardini di un tipo solo d’erbe o li varieremo con molte, se li avremo sterili per l’inerzia o concimati con diligenza, ebbene, il potere e la facoltà di deciderlo stanno nella nostra volontà. Se la bilancia delle nostre vite non avesse un piatto di ragione per equilibrarne un altro di sensualità, il sangue e la bassezza delle nostre nature ci condurrebbero a conclusioni irrazionali. Ma abbiamo una ragione per raffreddare i nostri impulsi furiosi, gli appetiti carnali, la libidine sfrenata di cui considero quello che tu chiami amore null’altro che una ramificazione o germoglio”. Ecco, per converso, qual è il ruolo della donna secondo Iago: un incidente di percorso che suscita quelle passioni che, a suo modo di vedere, fiaccano la ragione e il suo dominio su noi stessi. Per questo, perché ignora i propri e gli altrui sentimenti, Otello la uccide: il Moro non “cura il proprio giardino”. “I nostri corpi sono i nostri giardini”: la metafora shakespeariana, per inciso, è quella usata – pari pari – da Voltaire in Candido. “Io so che bisogna coltivare il nostro giardino”, dice Candido a Pangloss quando finalmente capisce che l’ottimismo non basta e che occorre piuttosto affidarsi alla nascente filosofia illuminista. Il guaio è che in questo giardino la donna non ha casa né funzione: è qualcosa di funzionale solo a sé, al proprio maschio progetto e un superomismo idiota. Iago è davvero sorpreso che Otello uccida, alla fine, la sua donna; è sorpreso che Desdemona debba sacrificare la propria vita sull’altare della sua strategia contro il Moro e Cassio. Ne è colpito ma non se ne preoccupa più di tanto (“Quel che sapete, sapete, da me non avrete più nemmeno una parola”, dice quand’è scoperto): perché – come Shylock – la donna è un soggetto estraneo alla società eletta degli uomini che duellano in nome del potere (di un misero grado da luogotenente, nel caso).


Shakespeare non voleva raccontare la storia di un ebreo bensì quella di un uomo “antipatico” e solitario 


Il teatro di Shakespeare è sommamente politico. Nel senso che quelli tra gli individui sono rapporti basati sulla forza: il più potente sottomette il meno potente. Sempre. E questo confronto (sia che riguardi i temi sociali sia che riguardi quelli famigliari o amorosi) avviene ogni volta nel segno della dialettica politica. Le donne di Shakespeare non partecipano al gioco: sovente ne sono vittime inconsapevoli (Desdemona), e solo di rado lo maneggiano con cura (è il caso di Porzia nel Mercante, per esempio, che però all’uopo si traveste da maschio…). Lady Macbeth è l’unica che si confronta politicamente e, politicamente, vince. Ma è onorevolmente donna sicché, avendo abdicato alla sua identità, finisce per impazzire. Desdemona no. Desdemona è solo una vittima occasionale: il suo uomo non sa rispettarla né capirla, il suo nemico non sa considerarla. Due ragioni alla base, oggi come oggi, di tanta, troppa diffuso discriminazione femminile.

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