La Sicilia della belle époque è poliglotta e policroma, leggiadra e vivacissima, ha un cuore di ostinata vaghezza e un altro di focosa vacuità, è un pieghevole di concerti e operette e commedie dove ogni tanto spunta qualche tragedia collettiva vera e spettacolarizzata, ma solo distrattamente, è un registro di nascite, nozze e morti in cui ogni dettaglio viene offerto sull’altare della mondanizzazione, un cunto in cui c’è posto per l’attenzione sociale, sì, ma in forma di caritatevole distanza, quel tanto che non guasta ma rafforzi la “profumata cartolina” dell’isola dove c’è sempre il sole, l’isola adorata dai turisti, attraversata dalle passerelle dei nobili, baciata da balli e tornei, a cui piace mostrarsi al mondo con la facciata del progresso e ruggire di modernità. Ecco di cosa possiamo avere contezza sfogliando i fascicoli della più scintillante fra le riviste di allora, che inaugurò nell’aprile del 1904: per gli inglesi Illustrated Sicily, per i tedeschi Das Illustrirte Sicilien, per i francesi, per i siciliani e per tutti gli altri fuori e dentro il regno La Sicile Illustrée. Nell’isola che non dimentica la rabbia di aver dovuto sottomettersi agli angioini, il francese resta la lingua dei nobili; un titolo internazionale e svagatamente chic era la parola d’ordine perché quel foglio patinato circolasse in ogni salotto, fosse letto con piacere da piacenti e piacioni, si facesse racconto e specchio di una società di lustrini che non sarebbe sopravvissuta alle stesse guerre e agli stessi cataclismi di cui si affrettava, di volta in volta, a negare o minimizzare l’esistenza o l’incombenza.
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