“L'opera interminabile”, alla ricerca di un canone per l'arte del XXI secolo
Altro che Cattelan: ecco Kiefer, Hirst e pure Björk e Iñárritu
Lo scorso anno a Milano, al Museo Bagatti Valsecchi, venne esposto un pezzo del Museo dell’Innocenza progettato dallo scrittore Orhan Pamuk. Aperto nel 2012, nel quartiere di Çukurcuma a Istanbul, il museo ospita la vertiginosa raccolta di mirabilia, reliquie, ritagli di giornale, oggetti, mozziconi di sigaretta che raccontano la tragica storia d’amore dell’omonimo romanzo pubblicato da Pamuk del 2008. Ormai parte delle grandi attrazioni di Istanbul, il Museo dell’Innocenza è un museo tratto da un romanzo che in quel momento, a Milano, era esposto nelle stanze di un altro museo citato nel romanzo (“Il signor Kemal, che alla sua morte aveva visitato 5.723 musei in tutto il mondo, approfittava di ogni occasione per recarsi al Museo Bagatti Valsecchi di Milano”, scrive Pamuk). Nel suo ultimo libro, “L’opera interminabile. Arte e XXI secolo” (Einaudi, 600 pp.), che verrà presentato questa sera al MAXXI di Roma, il critico e storico dell’arte Vincenzo Trione mette il “Museo dell’innocenza” tra le opere chiamate a costruire un possibile “canone” per l’arte del XXI secolo. Opere che prima ancora dei confini tra le arti, i media, i linguaggi mettono in crisi l’idea stessa di museo come luogo civico, tempio laico, palestra educativa, oppure parco giochi, format, svago culturale, secondo le innumerevoli declinazioni del sistema dell’arte e della nostra pedagogia. Non di rado i discorsi sull’arte contemporanea appaiono deprimenti, autoreferenziali, tautologici; dall’orinatoio di Duchamp alla banana di Cattelan, escono dalla cerchia degli addetti ai lavori solo in forma di “provocazione”, legata oggi al valore economico, alle quotazioni dei mercati, ai prezzi d’acquisto.
All’arte del XXI secolo, spesso effimera, immateriale, provvisoria, arte “allo stato gassoso”, come l’aveva definita Yves Michaud in un libro di qualche anno fa, sembrano negate le idee di canone, di racconto, di epica. Non la pensa così Vincenzo Trione, che individua quindici artisti e quindici “opere d’arte totali”, senza paura di scomodare Wagner, capaci di mettere in scena il caos, l’immaginario, l’epica del nostro tempo. Prima dei film visti sullo smartphone e delle serie tv proiettate nei festival cinematografici, Gore Vidal diceva che “ormai tutto è cinema, l’unica cosa che cambia è dove e come lo si vede”. Anche queste opere non sono riducibili all’idea di museo inteso come spazio inventato per i quadri, le statue, le sculture, un po’ come succede a Uber con i taxi, a Netflix con la televisione e Airbnb con gli alberghi: arte nell’epoca della disintermediazione (d’altro canto, come dice Pamuk, “il futuro del museo è nelle nostre case”). Sono opere che attraversano un “museo senza mura”, scrive Trione, che riprende e aggiorna l’utopia de “Il museo immaginario” di André Malraux. Opere che rispondono, ognuna in modo diverso, alle sollecitazioni dell’arte chiamata a reinventare il mondo, radunate per dare conto non solo di una moltiplicazione di linguaggi, ma di uno stile e di un’“epica del presente”. Alcuni troveranno singolare l’inserimento dello scenografo dell’ultimo tour degli U2, Es Devlin, di Björk, del regista Iñárritu, accanto a icone dell’arte contemporanea come Kiefer, Hirst, Kentridge, Sophie Calle. Ma la sfida, secondo Trione, è proprio quella di tornare a fare parlare le opere, non i sistemi, le teorie confezionate su altre teorie, le corporazioni discorsive che difendono le specificità dei linguaggi. “L’opera interminabile” si può leggere così anche come un romanzo, dove continuamente la ricostruzione storico-critica delle trame in cui prendono forma le opere sconfina nella prima persona dell’autore e viceversa. Uno smisurato, monumentale lavoro di classificazione che prova a restituire la provvisorietà dell’arte del XXI secolo a un racconto epico di cui abbiamo bisogno.