Un incantatore di serpenti del moderno
In morte di Roger Scruton. Liberale, ostile alle rotture di abitudine e di sistema, che si occupasse di verità, di morale, di fede, di politica, di morti e cimiteri, era scrittore filosofico superbo. Un omaggio nel segno di Nietzsche, a cui era affine
Scruton era un uomo di intelligenza viva e, per come era facile accorgersene standogli vicino nel corso di una conferenza romana, per esempio, era di un temperamento serenamente malinconico, due complementi essenziali di un pensiero conservatore, qualunque cosa significhi il termine oggi. Che si occupasse di verità, di ragione, di morale, di fede, di politica, di desiderio, di vino, di architettura, di morti e cimiteri, di caccia e tradizione, Scruton era uno scrittore filosofico superbo, un incantatore dei molti serpenti che strisciano nelle nostre anime moderne. Per quanto liberale, ostile alle rotture di abitudine e di sistema, molto british e burkeano, in realtà è stato percepito come un filosofo intensamente moderno, e perfino postmoderno, per la sua evidente affinità con Nietzsche.
Quasi vent’anni fa Gallimard pubblicò di Nietzsche un libro curato da Georges Liébert, una raccolta aforistica di “cattivi pensieri scelti”, con una introduzione ispirata di Mona Ozouf. Ne traduco di seguito una mezza pagina, e al posto di Nietzsche citato e parafrasato da Ozouf metteteci Scruton, è l’omaggio migliore che si possa fare al pensatore apollineo che trasfigurava il tempo attraverso le diagnosi del moderno di un filosofo tedesco che anticipava il tempo.
“Che cosa vede Nietzsche nei ‘prossimi due secoli’ di cui si proponeva come lo storico? All’ingrosso vedeva un socialismo che ‘persegue una pienezza di potere dello stato quale il dispotismo in quanto tale non ha mai posseduto’, che ‘si prepara silenziosamente al dominio attraverso il terrore’, un esperimento di cui prevede il costo ‘in una enorme dissipazione di vite umane’. Rivoluzionari tanto più pericolosi in quanto non mossi da interesse personale, e capaci legittimamente di esibire la loro abnegazione. Una fede senza chiesa, ridotta al foro interiore, e per contrappasso la proliferazione di sette, ‘questi denti di drago che sono stati seminati a profusione dal momento in cui si è fatto della religione un affare privato’. Il dispotismo di una lingua commerciale universale. L’avvilimento della cultura in merce, il successo derisorio trasformato in incantamento delle masse. (…) Una società malmostosa e arrogante, che non menziona il passato se non con l’ingiuria a fior di labbra, si erige in giudice spietato delle generazioni anteriori, misura tutta la storia sulla scala meschina del suo corso presente. Una società obliosa: non sa più che cosa è la natura, interpreta ‘i casi maligni che si abbattono su una comunità, temporali improvvisi, cattivi raccolti o epidemie’ come il frutto di volontà malefiche, e dunque cerca febbrilmente dei colpevoli, di preferenza istituzionali, anonimi, maiuscoli, lo Stato, la Società, l’Educazione. Infine una società di bambagia: non sopporta più il dolore né la malattia né la vecchiaia né la morte, divenute scandali: le sole religioni confessate sono quelle della compassione e del benessere; religioni deboli eppure ardentemente praticate”.
Il tema della conferenza romana, quando essere oratori cristiani sembrava un orgoglio praticabile per noi laici, era la fede senza chiesa, motivo ratzingeriano di un’epoca tramontata, e celibataria. La cerimonia degli addii, per un tipo come Scruton, è stata lunga, produttiva, inquieta, controversa ma feconda.