Meglio essere volpe che riccio. Ma anche così, l'importante è non esagerare
Pluralismo e verità uniche: Bosetti dialoga col pensiero di Berlin
Ricordate Isaiah Berlin? Anche chi sa pochissimo di lui, forse conosce la sua contrapposizione fra due visioni e modi di essere ripresa da una frase di Archiloco, il primo dei lirici greci: “La volpe sa molte cose, il riccio una cosa sola ma grande”. E’ una di quelle idee magnetiche con cui si possono fare anche piccoli giochi di società chiedendo ai presenti se sono, se si sentono più riccio o più volpe: se tendono alla centralità di una sola idea a cui riferiscono tutto, o se invece fanno coesistere nella propria mentalità e nella propria vita più idee e più valori anche contraddittori. L’osservazione di Berlin era per esempio che Tolstoj, uno degli autori da lui più amati, voleva essere, credeva di essere un riccio e invece era una volpe per la sua capacità di assumere, soprattutto come supremo narratore, una pluralità di punti di vista.
Berlin (1909-1997) è stato un grande storico delle idee che ha studiato in particolare il pensiero russo dell’Ottocento e le vicende di quella “intellighentsia” che ha avuto nel populismo, nel liberalsocialismo, nell’anarchismo, nel nichilismo e infine nel marxismo le diverse fasi della sua storia. Ma al centro del pensiero di Berlin ci sono Tolstoj e Aleksandr Herzen, autore di un capolavoro autobiografico, “Il passato e i pensieri”, nel quale l’autore, invece di concentrarsi sull’idea di rivoluzione, un’idea-mito ipnoticamente disastrosa, descrive e ritrae gli uomini, ci fa vedere che uomini erano i rivoluzionari e i patrioti ottocenteschi: da Mazzini a Marx, da Garibaldi a Belinskij e Bakunin… Questo spostamento di ottica, dall’idea agli individui e ai gruppi, è ciò che rende fondamentale l’opera di Herzen, grande antagonista culturale di Marx, ancora più dello stesso Bakunin. Ecco: mentre per Hegel e Marx la realtà storico-sociale ha un’unica legge di sviluppo, razionalmente conoscibile e precisamente teorizzabile, secondo Tolstoj e Herzen la storia non è un processo unitario “linearmente dialettico” e quindi prevedibile. E’ piuttosto un caos dominato sia dalle intenzioni che dalla casualità, nel quale intervengono una varietà di fattori, la cui logica può essere ricostruita solo “a cose fatte”.
Non mi sono interessato al pensiero politico di Herzen e all’idea di storia di Tolstoj dopo aver letto i saggi di Berlin. Ho scoperto più tardi Berlin, rallegrandomi del fatto che ci fosse uno studioso delle idee capace di prendere sul serio la filosofia di Herzen e Tolstoj come alternative al monismo storicistico di Hegel e metodologico di Marx.
Mi accorgo ora che il recente libro di Giancarlo Bosetti “La verità degli altri” (Bollati Boringhieri, 198 pp., 19 euro) si apre precisamente con un capitolo dedicato a Berlin in quanto pensatore “pluralista”. Il libro è polemico e attacca frontalmente i “monisti” secondo i quali la verità è sempre una ed è quella della propria tribù, religione, identità etnica, nazione, classe sociale. Accanto al pluralismo Bosetti colloca il relativismo culturale, negli ultimi tempi generalmente respinto e deplorato perché implicherebbe una rinuncia dell’Occidente alla priorità (e superiorità) dei nostri valori morali, civili, liberaldemocratici, elaborati e conquistati in secoli di gloriose lotte umanistiche e illuministe. Se si diventa relativisti, si è detto, allora si aprono le porte ai fondamentalismi etno-religiosi di culture che negano i diritti dei cittadini, la libertà di pensiero e la giustizia sociale.
E’ da qui che nascono alcuni problemi. Il capitolo di Bosetti su Berlin è costruito come una conversazione a cui segue una riflessione. Un metodo che permette di vedere Berlin in scena, di sentirlo parlare e dialogare. Direi che senza questo dialogismo la contrapposizione fra monisti (il riccio) e pluralisti (la volpe) risulterebbe troppo netta e priva di sfumature.
Berlin comincia opponendo all’universalismo razionalistico degli illuministi francesi la concretezza dell’esperienza vissuta rivendicata dai romantici tedeschi. Ma poi deve riconoscere che anche chi scopre la varietà delle culture, delle verità e dei valori può sbagliare. Quando? Sbaglia se eccede in una difesa delle diversità che diventa nazionalismo e che invece di produrre tolleranza produce contrapposizione e conflitti. Insomma, sono davvero me stesso, solo quando mi oppongo a te.
Vale la pena di fermarsi al modo in cui Berlin conclude la conversazione. Quella dualità monismo-pluralismo a favore del pluralismo, che sembrava l’asso nella manica della sua polemica, si attenua fino a spegnersi. Emerge così una “filosofia dell’anti-eccesso”. Messo alle strette dalle domande del suo interlocutore, Berlin riconosce che “soffriamo di un male duplice: eccesso di universalismo sul versante illuministico ed estremismo della reazione romantica a questo, che conduce fino ai nostri guai di oggi. Dobbiamo adattarci alle varietà locali: dobbiamo pensare che la molteplicità e la tolleranza sono i caratteri virtuosi di un mondo caleidoscopico e sperare che si combinino varietà e razionalità, felicità e conoscenza, giustizia e riconoscenza. E a questo punto è chiaro che stiamo parlando di un’utopia, perché intanto abbiamo a che fare con le peggiori conseguenze degli eccessi dell’uno e dell’altro lato e siamo qui a sperare che la gente si stanchi di ammazzarsi”.
A questo punto ci ritroviamo un po’ disperatamente nella Grecia antica e Berlin non trova di meglio che ricordare l’oracolo di Delfi: “Non andate troppo oltre, non spingetevi troppo in là. Di nulla troppo”.