La poesia è femmina
Sono scrittrici, performer, rapper. E soprattutto fatturano. Una forma espressiva riscoperta attraverso i versi delle donne
“Europe is lost, America lost, London lost”. C’è la Brexit, stavolta c’è davvero, e magari è per quello che se googli “Europe is”, perché un po’ te lo stai domandando, ce lo stiamo domandando tutti, che cos’è e che cosa sarà l’Europa, il primo risultato che viene fuori è quella frase un po’ catastrofica, forse profetica, di certo anarchica. Una frase che a esser onesti, o almeno precisi, non è semplicemente una frase perché è un verso, e apre una poesia, Europe is Lost, che è una delle più famose di Kate Tempest, millennial matura, londinese purissima, che nella vita fa la poetessa, la rapper, la scrittrice, la performer, la spoken word artist.
Kate Tempest nella vita fa la poetessa, la rapper, la scrittrice, la performer. Fa ed è tutte queste cose insieme. Ha successo
Fa ed è tutte queste cose. Ha successo. Ha vinto, prima donna sotto i quarant’anni, il premio Ted Hughes, che è uno dei massimi riconoscimenti inglesi per chi fa il suo mestiere. Ha un canale YouTube e un profilo Instagram, entrambi molto seguiti, sebbene non li usi per influenzare nessuno, non spacchetti prodotti, non sia testimonial di niente, non ci stia dentro che per condividere foto e video di quando recita poesie in quel suo modo tutto particolare che sembra un cantato ma non lo è mai perché è, invece, sempre un insieme di parole pronunciate e usate al massimo delle loro possibilità sonore. Fosse italiana, il Pd le proporrebbe la presidenza del partito, o magari il segretariato. La poesia rende meglio sui social network che in libreria, perché a volerla leggere sta in una foto, in un tweet, in un risultato di Google, e a volerla ascoltare sta in un TikTok, in una Instagram story, in uno streaming di Apple, in un servizio del New Yorker, il Poetry Bot, che ogni giorno ti invia una poesia, anzi te la legge, ora che siamo diventati tutti ascoltatori, l’umanità è diventata un grande orecchio, e dire che fino a due anni fa, forse meno, avremmo detto che era un grande occhio, perché sembrava che funzionasse soltanto il visivo. E invece adesso ascoltiamo libri interi, raccolte di poesie, editoriali, elzeviri, inchieste, mappe, approfondimenti – e dire che il disturbo da deficit di attenzione è sempre più diffuso e quasi incontrastabile perché siccome è complesso diagnosticarlo, viene curato una volta su cinque. Kate Tempest non è l’unica poetessa che (scusate la parola) funziona, ma è l’esempio migliore di un aspetto della poesia che stiamo scoprendo soltanto adesso esserle connaturato: la versatilità. Kate Tempest scrive soprattutto poemi, e il pubblico che va ad ascoltarla quando li recita o li rappa riempie interi stadi, e poi fila in libreria a comprare i suoi libri, che in Inghilterra finiscono persino in classifica, su Instagram finiscono fotografati (da dentro e non da fuori, non dalle copertine).
La poesia si presta a tutto, sempre di più, e fattura, sempre di più, anche se non esattamente vendendo libri ma animando spettacoli, concerti, storytelling, relazioni (di quelle da mettere in tasca e non al dito, come piacciono a noi), dischi, filastrocche, pubblicità, festival, terapie (ebbene sì, chiunque abbia fatto un viaggio sciamanico lo sa, ti danno un tamburo oppure un sonaglio fatto alla boia di un giuda, praticamente una bottiglia di plastica riempita di fagioli secchi, e ti leggono delle poesie mentre chiudi gli occhi e fai un “rilassamento guidato”, o te le fanno scrivere mentre ascolti quelle di altri, o te le fanno dire mentre dialoghi con un altro che come te ha pagato per infilarsi in una botola e battere su un tamburo fatto in casa e/o tenere il tempo con una bottiglia piena di fagioli – tutto tremendo, ma sempre meglio della palestra).
“Negli ultimi anni si è estinta la generazione di poeti che sostanzialmente dovevano immaginare cosa significasse essere considerati meno di niente, che pare essere l’esperienza americana per antonomasia”, ha scritto John Freeman nell’introduzione a “Nuova poesia Americana” (Black Coffee). Negli Stati Uniti, quello che sta accadendo alla poesia, il suo rinnovamento e la sua apertura, la scoperta della moltitudine di forme cui si presta, la sua “vibrazione che certi giorni è pura gioia e certi altri rabbia” è ben rintracciabile soprattutto nel lavoro delle poetesse, che hanno quasi del tutto archiviato la componente politica, che nella poesia americana è sempre stata centrale, e le hanno dato un calore domestico, intimo, curioso, una stanza tutta per sé e soprattutto l’hanno portata dappertutto, o almeno ci hanno provato, per contaminarla, arricchirla e tradirla, anche, perché no.
Negli Stati Uniti e in Europa la poesia è una galleria di “personalità poetiche” e, in questo senso, batte la letteratura. Mentre la fenomenologia degli scrittori è destinata a sapere di stantio e disperazione, mentre gli scrittori che vanno in televisione o fanno reading nei teatri e nei supermercati sono destinati all’inefficacia, i poeti-personaggio hanno parecchie chance in più. E non solo perché la poesia sembra, vista la sua brevità, più facile da fruire, secondo quella modalità di fruizione che il nostro tempo venera e che è l’assimilazione (puoi ridurre un poema in pillole o in album, ma non un romanzo). C’è, di più, che la poesia ha un che di oracolare, e in questo incontra il desiderio di vaticinio che abbiamo ripristinato insieme alle discipline che stiamo trasformando in scienza esatte (astrologia, cartomanzia e stregoneria). C’è che la poesia è irrimediabilmente radicale, e anche in questo incontra un modo d’essere che ci si confà, che assomiglia alla nostra pretesa di essere accettati, amati, accolti per come siamo, senza passare per la comprensione. C’è che la poesia si presta a una riconnessione con lo spirito (nostro, del prossimo, dell’ambiente), il solo elemento identitario che ancora ci concediamo di avere e del quale non tracciamo la genealogia, che esentiamo dall’accusa di condizionamento.
La poesia si presta a tutto, e rende, anche se non esattamente vendendo libri ma animando spettacoli, concerti, storytelling
C’è che la poesia, anche quando non è di contenuto immediatamente chiaro, anche quando resta impenetrabile, diversamente dalla prosa, può contare sulla recettività dei sensi, al cui risveglio votiamo sforzi psicofisici piuttosto notevoli, basta vedere come alimentazione e sport siano diventati pratiche liturgiche. C’è che la poesia è prossima alla favola, un’altra forma espressiva che il nostro presente ama, lima, trasforma continuamente. Tra i libri di poesia del 2019 segnalati dal New Yorker c’è Deaf Republic (Repubblica Sorda) di Ilya Kaminsky, che è precisamente una favola e racconta di una città immaginaria, Vasenka, i cui cittadini restano tutti sordi all’indomani dell’omicidio di un sordo. La sordità, che solitamente simboleggia l’indifferenza, è qui la metafora di una ribellione. E’ un esempio, questo, di come la poesia possa oggi occuparsi delle rifondazione e riscrittura di significati, allegorie, arbìtri e artifici dialettici che hanno ristretto la semantica e l’antropologia che ne discende, e di come possa farlo con la soavità e il racconto, anziché con la militanza e l’imposizione formale. Naturalmente, lavori più espliciti, con vocazioni e invocazioni più dirette, esistono e stanno soprattutto tra le file della letteratura poetica afroamericana, che gioca nello stesso campionato identitario della prosa. Camonghne Felix, che lavora nello staff elettorale di Elizabeth Warren e ad aprile ha debuttato con la sua prima raccolta, “Costruisciti una nave”, è una delle più giovani di quella parte, o sezione, o gruppo (parlare di categoria sarebbe improprio, forse ingiusto: al netto delle tendenze comuni, inevitabili, il bello di queste ragazze è che sono davvero una galleria di “personalità poetiche”, e non hanno scuole, manifesti, pregressi comuni, eppure è facile che sintonizzandosi su una di loro ci si sintonizzi su altre dieci).
“Il corpo è appetito”, ha scritto Tracy Smith, che dei nuovi poeti americani fa parte e soprattutto è una delle nuove poetesse americane che più s’intonano alla stessa generazione di Kate Tempest, generazione non esattamente anagrafica ma estetica. Primo, Smith è di successo (Premio Pulitzer nel 2012; XXII Poeta Laureato degli Stati Uniti nel 2017). Come Tempest, Smith lavora sulla musicalità della sintassi, racconta l’identità come una strada e non una casa, scrive versi carnali ma asciutti, precisi. La precisione e l’esattezza della poesia contemporanea, soprattutto di quella femminile occidentale, sono un lascito dell’incontro con il rap, incontro che Tempest incarna meravigliosamente. Lei condivide con il rap e l’hip hop il bisogno di parlare dei confini, delle vite che si sprecano nel disamore, nella disattenzione, nella povertà, nella noia. Condivide la rabbia appassionata, lo spirito di osservazione e punizione, la prima persona, la trascrizione del vissuto, la volontà chiara di trascinare chi la ascolta in un gorgo, e di scrivere per mettere in pericolo chi legge.
La precisione e l’esattezza della poesia contemporanea, soprattutto di quella femminile occidentale. L’incontro con il rap
Tempest è una lettura fondamentale per capire l’Inghilterra di adesso, e naturalmente la Brexit, ma è importante anche per la cifra eroica dei suoi testi, e per il mandato che assegna loro: avvicinare gli esseri umani alla pietà, dar prova che andare nelle periferie non significa piazzare i gazebo delle feste di partito nei quartieri diseredati bensì avere “uno sguardo più umano e senza pretese” sugli altri, decostruire le aspettative, probabilmente annullarle, e lasciare che ciascuno fiorisca da sé. Natalie Diaz, poetessa ex giocatrice agonistica di basket e soprattutto “membro della comunità nativa del fiume Gila”, ha esordito con una raccolta che parla di suo fratello tossicodipendente, e della difficoltà di amare qualcuno così malridotto, così disinteressato a vivere da voler soltanto sopravvivere. Ha anche lei quella fame – “Ho imparato Bevi in una nazione di siccità” – e quella combattività di Smith e Tempest. Ha anche lei quel modo di essere cronista del suo tempo. Anche lei è una perfetta “language activist” visto e considerato anche che, come la maggior parte dei nativi americani, è proprio sul linguaggio che insiste per far valere e poi preservare la specificità della sua comunità. La militanza lessicale di queste nuove poetesse non è però mai accostabile alla correzione del linguaggio richiesta dal post femminismo e dalle istanze attente all’individuazione dell’appropriazione culturale. Con il post femminismo, così come con qualsiasi corrente o pratica ideologica, le poetesse c’entrano poco, sebbene di poesie impilate in classifiche ispiranti ai fini di empowerment siano pieni i social network. La parola poetica delle donne, oggi, serve prima di ogni cosa a vedere, ed è per questo che vuole farsi sentire, pronunciare, urlare o solamente sibilare. “Questo testo è stato scritto per essere letto ad alta voce”, è l’indicazione che compare in esergo a tutti i libri di Kate Tempest (eccezion fatta per il suo romanzo, “Le buone intenzioni”, Frassinelli), che però almeno per il primo capitolo e mezzo non è che questo: una lunga poesia da leggere a voce alta, e magari da rappare, per chi sa farlo.
“Io ho avuto soccorso a volte da una piccola foglia”, ha scritto Mariangela Gualtieri, che l’anno scorso ha pubblicato la sua ultima raccolta, “Quando non morivo” (Einaudi), sulla cui copertina è riportata una poesia splendida, che ha girato su Instagram soprattutto tra le bolle ecologiste, e che è un manifesto inconsapevole del punto di incontro tra politica e nuovo femminismo: la simbiosi, accorta ed educata, tra individuo e pianeta; la necessità che l’uomo ha di essere salvato dalla terra, assai più del contrario, e che è una maniera molto affascinante di prendere la questione ambientale.
Mariangela Gualtieri è una performer, ma non usa il rap, né fa spoken word, eppure anche lei riempie i teatri di ascoltatori
“Subito si cuce questo niente da dire/ ad una voce che batte. Vuole / palpitare ancora, forte, forte forte / dire sono – sono qui – e sentire che c’è / fra stella e ramo e piuma e pelo e mano / un unico danzare approfondito, e dialogo / di particelle mai assopite, mai morte / mai finite. // Siamo questo traslare / cambiare posto e nome. // Siamo un essere qui, perenne navigare / di sostanza da nome a nome. Siamo”. Gualtieri, come le altre, è una performer, ma non usa il rap, né fa spoken word, eppure anche lei riempie i teatri di ascoltatori. Nel 1983 ha fondato, insieme a Cesare Ronconi, Teatro Valdoca, una compagnia teatrale sperimentale, per la quale sin dalla fondazione lavora a ogni allestimento. Nella sua biografia è scritto: “Cura la consegna orale della poesia dedicando piena attenzione all’apparato di amplificazione della voce e al sodalizio fra verso poetico e musica dal vivo”. L’anno scorso, quando è stata ospite per una lettura delle sue opere all’Angelo Mai di Roma, c’era moltissimo pubblico in piedi. E dire che non è coreografica, indemoniata, movimentata, accaldata come Tempest, che invece usa il palco come un ring. Anzi. Gualtieri illumina le parole soltanto con la voce. Non usa i social network, dove tuttavia è molto amata, condivisa, cercata.
Ma metti una sera a cena, da sola, da separata, da abbandonata, da disperata. Una di quelle in cui è difficile tutto, anche seguire il Grande Fratello Vip, che comunque quest’anno ha le sue complicazioni e le sue punte intellettuali, sapete, c’è Barbara Alberti (e quando c’è lei è impossibile non prendere appunti, cosa che costa fatica). E’ complesso tutto, figurarsi leggere un verso di Gualtieri. Metti che sia una di quelle in cui vorresti fare molte cose, ma la sola che riesci a reggere senza sentirti un lombrico è scorrere Facebook. Per quelle sere c’è Enrica Tesio (il suo “Filastorta d’amore” per Giunti è un gioiello), una paroliera eccezionale, che scorre come un bicchier d’acqua, anche se ogni tanto va storta. E scrive cose che fanno così: “Io vado in vacanza dai giorni a venire, il lusso del tempo è lasciarlo finire”. Politica, senza averne l’aria. Cip perfetto, volendo anche tweet.