La strega cinese
Con una storia del Seicento, Sciascia ci spiega la pseudoscienza e il meccanismo del complotto
Il 4 marzo 1617 Caterina Medici, una servotta non giovanissima, non bella ma che “oggi diremmo interessante”, di costumi non irreprensibili ma non scandalosi neppure per la zoppicante morale del tempo, finì sul rogo in piazza della Vetra a Milano come “strega professa” (del resto aveva confessato: sotto tortura) e per aver tentato di uccidere coi suoi “malefizi” un nobile e attempato milanese, il senatore (del Senato cittadino) Luigi Melzi. Storia oscura e fascinosa, le streghe non escono mai di moda a giudicare dal successo delle serie tv, dal fatturato che fattucchiere di ogni risma mettono assieme in tutto il mondo.
Ma l’aspetto per cui vale la pena raccontarla in questi giorni di coronavirus e soprattutto di “infodemia”, una malattia letale dell’informazione, come l’ha chiamata l’Oms, è un altro: il meccanismo attraverso cui riemerge anche oggi l’irrazionalismo è lo stesso di allora. Non sappiamo, quindi per forza è pauroso, è colpa di un untore, è un complotto. I malefizi della fantesca (grovigli di nodi, erbe che furono trovati nei cuscini del senatore) non erano stati posti per uccidere il pover’uomo, ma per ammaliarlo e attirarlo nel suo letto, ove “negoziarla”. Ipotesi stregonesca assai improbabile, e dai verbali del processo – noto tanto a Pietro Verri che a Manzoni, che però non approfondirono a dovere la vicenda – si può arguire che né il senatore né altri uomini di riguardo in precedenza avessero avuto necessità di venire stregati per “negoziare” Caterina. O almeno questa è l’illuministica intuizione di Leonardo Sciascia, che nei suoi ultimi anni studiò le carte e ne trasse uno splendido libretto, “La strega e il capitano”, ora riproposto da Adelphi.
Caterina doveva essere per forza una strega: il Melzi soffriva da tempo di lancinanti e inspiegabili dolori di stomaco, e poiché non si trovava la causa né il rimedio qualcuno (i medici, i migliori su piazza) pensò che la causa fosse per forza diabolica. E in quel secolo buio la stregoneria era creduta e praticata. O per meglio dire era praticata perché creduta, anche da coloro – gli uomini di scienza e i giudici – che non avrebbero dovuto prestarvi fede. A rafforzare la fede nelle streghe non era solo l’ignoranza dei tempi, ma anche lo sfruttamento di una retorica complottista che alle classi dominanti (o sapienti) faceva comodo: se non si trovava una spiegazione naturale a un fenomeno, il fenomeno era, con evidenza, sovrannaturale. E così doveva essere creduto.
Il racconto di Sciascia riguarda una strega (in questo caso a processare e condannare non fu l’inquisizione della chiesa, ma magistrati e tribunali del governo di Milano) ma il vero nodo è la pseudoscienza e la sua disastrosa influenza sociale. E’ il meccanismo in base al quale Manzoni racconterà la storia degli untori e della Colonna infame. Serviva un colpevole, ma anche una causa ignota da additare al popolo, il quale non sa né vuol sapere di nozioni scientifiche, o almeno probabili. Non lo voleva allora – e nessun medico o autorità si sarebbe arrischiato ad ammettere la propria impotenza di fronte a una pestilenza – ma non lo vuole tuttora, nell’epoca in cui la risposta deve essere immediata e comprensibile a tutti. Perché, in caso contrario, il popolo sa dove addottorarsi al primo influencer di fake news, al primo stregone.
Un secondo aspetto che rende la vicenda quantomai attuale, e ancora si torna a Manzoni, è la descrizione di un circolo vizioso. Nel Seicento nelle classi contadine e popolari il ricorso (o il millantato ricorso) a pratiche di stregoneria e magia nera era aumentato. Ma se per secoli non aveva impensierito più di tanto la chiesa, dopo la Controriforma commerciare con il diavolo rischiava di trasformarsi in un gesto di esplicita insubordinazione contro la chiesa. La chiesa se ne preoccupò, iniziò a setacciare ovunque per trovare “prove” del complotto, imparare a conoscerlo per poi reprimerlo. “Colte nella tradizione popolare e nel farneticare di alcuni, queste credenze venivano da dotti religiosi accuratamente catalogate e descritte”, dice Manzoni, e “la gente istruita prendeva ciò che si poteva accomodar con le sue idee”. E, come nel processo alla strega Caterina, erano poi gli stessi inquisitori a suggerire quali traffici e quali nefandezze confessare (li conoscevano bene!). Sotto tortura, lei diceva sì. Per la tortura, ma anche per un meccanismo mentale: se gli inquisitori e gli scienziati ritenevano vere le stesse cose che le streghe sapevano, erano per forza vere, accadute. Così, scrive Manzoni, “si formava una massa enorme e confusa di pubblica follia”. Al popolo che assisteva alla Vetra al rogo della strega non restava che far due più due e prendere per buono il circolo vizioso. Oggi le streghe non ci sono più. In compenso funziona ancora quel meccanismo per cui organi di informazione e politici per molto tempo hanno preso sul serio balle antiscientifiche restituendole poi, certificate dal guru di turno, al popolo che voleva sentirsele raccontare. E che vuole la strega cinese.