La società decadente
Il nuovo libro di Ross Douthat racconta il dramma dell’occidente adagiato su una disperata prosperità
Il profondo e profondamente inquietante dramma contenuto nel nuovo libro di Ross Douthat, opinionista conservatore del New York Times, consiste nell’assenza di una catastrofe. Benché si tratti di un saggio che si sforza di fissare in un quadro sintetico, e per quanto possibile coerente, la condizione della civiltà occidentale contemporanea, non ci sono profezie di apocalissi o piaghe incipienti, non ci sono distruzioni all’orizzonte, non ci sono guerre termonucleari e collassi finanziari imparagonabili ad altri recentemente attraversati, non ci sono violenti scontri di civiltà, fughe interstellari, apocalissi climatiche da antropocene, pestilenze che decimano la popolazione mondiale né invasioni barbariche letterali o figurate. Ed è proprio questo il problema: si arriva quasi a desiderare un cataclisma, un evento esogeno, che risvegli dal torpore che domina lo scenario e rimetta in moto la storia. È il paradosso che suggeriva agli inizi del Novecento il poeta Costantine Cavafy in un componimento che descrive l’attesa febbrile per l’arrivo dei barbari e scivola in un strana delusione quando, al termine della notte in cui era previsto con certezza l’assedio dell’orda, si prende atto che non si è presentato nessuno: “Queste persone erano una specie di soluzione”, conclude Cavafy. Douthat fissa lo sguardo su questa attesa dolente, la sospensione fra i segni del tracollo e il fatto che questo potrebbe non verificarsi affatto, situazione descritta dalla citazione di Gramsci in esergo, isolata dal suo contenuto rivoluzionario: “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Il centro del problema non è la caduta dell’impero romano, ma i quattro secoli di perenne crepuscolo che passano fra il regno di Nerone e la fine. Douthat sceglie di dare a tutto questo il nome di decadenza, e il saggio, in uscita il 25 febbraio negli Stati Uniti, s’intitola coerentemente The Decadent Society.
L’aggettivo “decadent” è ambivalente. Per l’opinionista del Nyt è un misto di stagnazione culturale e ricchezza senza slanci
Tradurre è tradire, recita un detto in questo caso azzeccato, perché in inglese l’aggettivo decadent copre una gamma di significati più ampia della sua traduzione letterale in italiano. Ha a che fare con il piacere colpevole del superfluo, uno stile di vita lussuoso e inelegante, contiene un certo tratto di perversione morale che s’applica a inclinazioni e pratiche anche molto diverse, dalla crapula al sadismo. Uno stato impoverito e sull’orlo della bancarotta è decadent, ma è decandent anche una torta al doppio cioccolato ricoperta da una cascata di caramello, sormontato da gelato al macadamia e guarnito con panna montata al profumo di lampone. La reggia di Versailles è il culmine architettonico del decadent, ma non tutte le ville opulente lo sono. Una volta un inviato del Guardian alla tenuta trumpiana di Mar-a-Lago, notando che il presidente aveva fatto rimuovere le tende fiamminghe del Sedicesimo secolo messe dai precedenti proprietari, lo ha rimproverato, si fa per dire, perché la magione non è decadent come lui la descrive.
In un altro senso ancora, il termine denota una certa irrisolutezza, indolenza, un’incapacità di agire e prendere posizione che rivela mancanza di carattere e convinzione. Il lemma, curvato in questo senso, ha avuto una certa fortuna nel descrivere leader politici blandi, indecisi, temporeggiatori. Decadenza, nota l’autore, è una parola “usata in modo promiscuo e di rado con precisione”, ed è proprio questa ambivalenza che anima la tesi di fondo del giornalista e giustifica un sottotitolo che altrimenti risulterebbe incongruo: “Come siamo diventati vittime del nostro stesso successo”. La tesi, in estrema sintesi, è questa: la civiltà occidentale è percorsa da un intorpidimento esistenziale abbastanza serio da aver ridotto sensibilmente la sua capacità di scoprire, creare, modellare, rinnovarsi, riconoscere e attribuire significati, generare appartenenze stabili e costruttive, ma non abbastanza grave da aver dilapidato la prosperità materiale che permette a centinaia di milioni di persone di continuare a condurre una vita fondamentalmente agiata. Questa è la definizione di decadenza che Douthat adotta, estraendola dallo storico franco-americano Jacques Barzun, uno specialista del genere: “Stagnazione economica, decadimento istituzionale e esaurimento intellettuale in un contesto di alto livello di prosperità materiale e sviluppo tecnologico”. La definizione tende a superare il rigido, manicheo dialogo fra Pangloss e Martino. La decadenza non si esprime nella povertà, nella distruzione e nel conflitto, ma nell’agio economico e nella possibilità di accedere a servizi e beni di consumo sempre più sofisticati. Si può abitare in modo decadente anche il migliore dei mondi possibili. O, come scrive l’autore, “una società può essere decadente senza necessariamente essere destinata a un qualche collasso”.
L’autore ha idee ragionevoli su possibili riforme anti-decadenza, ma la suggestione più profonda è un’altra: tornare a guardare le stelle
Nella divisione ultrapolarizzata fra non-siamo-mai-stati-meglio e la-fine-è-vicina, fra il neo-illuminismo di Steven Pinker, che con un diluvio di dati dimostra che l’umanità non è mai stata tanto florida, sicura, istruita e longeva, e l’apocalisse ambientale di Greta Thunberg, che rinfocola la narrazione dell’essere umano come grande parassita che dovrebbe avere la decenza se non di autoeliminarsi almeno di non riprodursi troppo, Douthat non sceglie una soluzione intermedia, un compromesso moderato. Sceglie un’altra via. E questa via dice che il successo – attenzione: il successo, non il fallimento – delle società occidentali contemporanee è il motore segreto della sua decadenza. Non nonostante, ma proprio in virtù dei grandi progressi economici, sociali e tecnologici degli ultimi settant’anni, l’uomo occidentale è entrato in uno stato di decadenza, segnato dall’affievolirsi dello slancio verso nuove scoperte, nuove imprese, e dalla sostanziale manutenzione dell’esistente, benché questa tendenza sia spesso nascosta sotto le insegne tecno-ottimiste dell’accelerazione senza fine. Questo non contraddice l’ottimismo pinkeriano, che si rallegra per le conquiste raggiunte e valorizza le intelligenze e le risorse che le hanno permesse, ma ne relativizza la portata e il significato storico.
C’è un momento simbolico che Douthat individua come centrale nel percorso decadente: lo sbarco sulla luna, nel 1969. La spedizione dell’Apollo 11 non è stata soltanto una grande impresa, un matrimonio felice fra l’ingegno e il coraggio umano, ma anche una promessa che riguardava l’avvenire. Il passo per l’umanità fatto per interposto Neil Armstrong era grande, ma era anche un passo, che di solito è l’inizio di un percorso, il primo segmento di una traiettoria che, nel caso delle esplorazioni spaziali, prometteva obiettivi stellari, letteralmente. Cos’è successo dopo l’allunaggio? Quasi niente. Non che le esplorazioni spaziali si siano interrotte o il settore sia stato abbandonato, ma gli investimenti, le missioni, le ambizioni non hanno mantenuto le promesse suscitate da quella spedizione epocale. E’ stato un calo del desiderio, soprattutto: “In generale, l’umanità ha deciso che qualunque cosa c’era là fuori, sarebbe rimasta molto probabilmente fuori dalla nostra portata”, scrive Douthat, che collega la depressione post-lunare alla scomparsa dell’ideale della frontiera, fondamentale per l’occidente tutto e per l’America in particolare: “Uno degli assunti culturali centrali nelle nazioni occidentali è che le frontiere inesplorate, le scoperte, i nuovi mondi da conquistare non sono soltanto desiderabili ma sono il punto della vita”. Il rallentamento delle esplorazioni spaziali finalizzate alla scoperta dell’inesplorato è soltanto un esempio della perdita dello slancio. Se ne potrebbero fare altri, in diversi ambiti. Il Boeing 707, lanciato nel 1958, raggiungeva una velocità di crociera di 977 chilometri all’ora; l’ultimo Boeing prodotto, il 737 Max, arriva a 839 km/h e ha i disastrosi problemi di cui si è molto discusso. Il 747, uscito nel 1969, è ancora in uso. La traiettoria recente dell’aeronautica civile non è una storia di accelerazione.
“Il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”, scriveva Gramsci
E allora internet? La Silicon Valley? Lo smartphone? Amazon? L’auto elettrica? Anche questi progressi sono decadenti? Sì, dice Douthtat, che fa un convincente lavoro analitico per spiegare che tutte le ottime innovazioni che hanno cambiato, tendenzialmente in meglio, le nostre vite di abitanti dell’era della information economy sono tutto sommato modeste rispetto alle davvero rivoluzionarie invenzioni che hanno cambiato il volto della terra fra la fine del Diciannovesimo secolo e la prima metà del Ventesimo. Anche l’iPhone, uno dei prodotti che più ha cambiato abitudini di consumo e ha plasmato la cultura, è il frutto di una mente geniale accoppiata a circostanze favorevoli più che il sigillo di una stagione rivoluzionaria. Ogni volta che viene presentato un nuovo modello di iPhone, praticamente tutti gli osservatori di cose tecnologiche dicono la stessa cosa, cioè che è la versione migliorata del modello precedente. Il che è una grande cosa dal punto di vista industriale e del mercato, ma non è un allunaggio che riempie le menti e i cuori dell’umanità di nuovi sogni. Quello che è cambiato con l’era digitale, osserva Douthat, è la percezione del cambiamento tecnologico e sociale: “La velocità con cui facciamo esperienza degli eventi è aumentata, ma la velocità del cambiamento no”. L’eccesso di stimolazione soggettiva dettata dallo stato di connessione permanente fa sembrare che tutto, in ogni ambito, si stia evolvendo a una rapidità spaventosa, secondo quella legge di Moore che è il sostegno teorico dell’ipotesi della singularity, mentre non è così. La condizione umana occidentale che il giornalista descrive è questa: “Stiamo invecchiando, comodamente bloccati, sradicati dal passato e non più ottimisti sul futuro, rifiutando la memoria e l’ambizione mentre attendiamo un’innovazione o una rivelazione che possa salvarci”. Il mondo in cui viviamo è stato “sterilizzato [...] dai desideri dichiarati dei suoi abitanti”.
La “stagnazione secolare” dell’economia si sovrappone alla ripetizione in ambito culturale. Dai film Marvel ai remake di Star Wars
Il racconto della decadenza è un gioco di paradossi: l’individualismo, forza che ha spinto la crescita, oggi è il seme della stagnazione; la promessa di indipendenza si è trasformata nella maledizione della solitudine. Douthat distingue quattro ambiti fondamentali in cui la decadenza si esprime in modo osservabile. La stagnazione, che si mostra nella mediocrità dell’innovazione tecnologica e della crescita economica, (Larry Summers già una decennio fa ha iniziato a parlare di “stagnazione secolare”), la sterilità di società che hanno cronicizzato il calo demografico, la “sclerosi” che ha portato all’indebolimento delle istituzioni democratiche – Trump non è che la testimonianza più chiara del fenomeno – e infine la ripetizione come legge fondamentale della produzione artistica e culturale. Douthat, che ha una carriera parallela come critico cinematografico e commentatore di cose pop, scrive forse le pagine più riuscite del saggio quando descrive la condanna di un mondo in cui praticamente l’intera industria cinematografica è concentrata a produrre film identici basati su supereroi creati decenni fa, mentre genitori e figli si ritrovano con gli stessi riferimenti pop, dato che i primi sono cresciuti con Star Wars e i secondi con i suoi remake: “Una cultura vitale critica la sua tradizione; una cultura decadente si limita a ripetere la stessa critica a volume più alto”.
Si può vincere la decadenza? Si può sperare in un’uscita dal complesso di mediocrità in cui l’occidente sembra incagliato? Nella conclusione del saggio, Douthat, che è cattolico, introduce l’idea della provvidenza, non soltanto come fatto religioso, ma come ipotesi, postura, orientamento dello sguardo verso una realtà che ha parlato, e può ancora parlare, a chi la interroga circa le questioni ultime dell’esistenza. Decadenza è anche il silenzio, o l’incapacità di ascoltare, che domina una civiltà soddisfatta e vuota. Douthat ha idee interessanti e anche molto sofisticate riguardo alle riforme sistemiche, ai progetti possibili per salvare le istituzioni della democrazia liberale, governare ragionevolmente e umanamente i flussi migratori, promuovere il dialogo per alleggerire l’insopportabile polarizzazione ideologica di questi tempi decadenti, ma la cosa più preziosa che si trova a comunicare è questa: bisogna rovesciare il capo e tornare a guardare i cieli.