Memorie della Restaurazione
Ma non quella evocata da Di Maio per aizzare la piazza contro i vitalizi. Quella vera, dell’Ottocento europeo
Si fa presto a dire Restaurazione. L’ha rievocata l’altro giorno un esagitato ministro Luigi Di Maio denunciando il pericolo del ritorno a vecchie formule, ad antichi privilegi, soprattutto della classe politica italiana. Restaurazione come regressione? Ma come andò quando la Restaurazione irruppe veramente nei giorni della storia?
Martedì 7 marzo 1815, da Parigi, il visconte Jean-Félicité Montmorency, fervente monarchico, frequentatore di salotti antinapoleonici – in particolare di madame de Staël e di Juliette Recamier, dopo si possono incontrare Chateaubriand e Banjamin Constant - con una ansimante lettera avverte monsieur le comte François Edouard, a Rouen, che “la nouvelle telegraphique d’hier annonciait la debarquement de B. avec 1500 ou 2000 hommes et que Paris est dans la plus grand calme...”. Era la notizia di un estremo ritorno di fiamma. L’inizio dei “cento giorni”. Sconfitto a Lipsia dagli alleati europei nell’ottobre del 1813, Napoleone aveva abdicato il 4 aprile 1814. Esiliato all’Elba, nel marzo del 1815, abbandonata furtivamente l’isola, sbarcato a Golfe Juan, vicino ad Antibes, stava marciando verso Parigi. Senza incontrare opposizione alcuna. Facendo riaffiorare lo spirito rivoluzionario, Napoleone attaccò subito i nobili e i preti, votati a ristabilire l’antico regime: “Li manderò tutti alla forca”.
Con estrema disinvoltura Napoleone cominciò a prodigare promesse, senza probabilmente attribuirvi nessuna importanza
Diffusasi la notizia del ritorno dell’imperatore un vivace movimento popolare in assemblee autoconvocate riempì le piazze di Francia mentre la borghesia giacobina ridava vita alle federazioni. Si auspicava la necessità di un Comitato di salute pubblica. La Marsigliese sgargiava per le strade. Con estrema disinvoltura Napoleone cominciò a prodigare promesse, senza probabilmente attribuirvi nessuna importanza. Emersero ovunque strani arringatori di folle. Tutti dicevano la loro ritenendo d’avere la ricetta per risolvere ogni problema. A Parigi i giornali, i corpi costituiti e lo stesso Consiglio di Stato reclamavano un governo costituzionale. “Quel diavolo d’uomo mi ha guastato la Francia”, commentò Luigi XVIII. L’opposizione liberale snervò il governo. Al ministero di Polizia Fouché cercava di tenere buoni tutti mentre trattava segretamente con il cancelliere austriaco von Metternich. Agli Interni Lazar Carnot non faceva che sostituire funzionari. In Vandea, ormai anacronistici, riapparvero i nostalgici della remota Prima repubblica.
La Francia sembrava una voliera impazzita. Ciò che tuttavia preoccupava era la minaccia straniera. Durante la marcia verso Parigi, Napoleone aveva assicurato di essere d’accordo con l’Austria. Si stenta a credere si facesse illusioni. Chissà se gli era balenato nella mente l’incontro privato di Dresda del 1813, quando il cancelliere austriaco Klemens Wenzel von Metternich, gli aveva detto chiaramente, per indurlo a più miti pretese, che la sua parabola era praticamente conclusa. Napoleone aveva reagito urlando. L’avvertimento di Metternich avrebbe avuto esito nella disfatta di Lipsia, l’ abdicazione al trono di Francia, il domicilio coatto sull’isola d’Elba. E mentre Napoleone, nel suo immaginario “regno elbano”, si dedicava a progettare lo sfruttamento delle miniere di ferro, a studiare le possibilità di una agricoltura intensiva, a mettere insieme biblioteche di letture amene e, soprattutto, nel suo mai sopito sogno imperiale, a vagheggiare ipotesi per poter rimettere le mani su quanto sembrava perduto, il 1º novembre 1814, nel castello di Schönbrunn a Vienna, capitale dell’allora Impero austriaco, si apriva un congresso convocato dal principe di Metternich con il fine di dare un nuovo stabile assetto all’Europa dopo la ventata napoleonica.
Durante il Congresso di Vienna si confrontarono linee politiche contrapposte: chi voleva il ritorno al passato, chi un compromesso
Ruolo di primo piano al summit le quattro nazioni vincitrici: Austria, Regno Unito, Prussia e Russia. Con delegazioni di diversi stati anche la Francia partecipava al congresso per l’abile azione diplomatica di Talleyrand, vescovo prima della rivoluzione dell’89, deputato rivoluzionario, collaboratore di Napoleone e al tempo ministro degli esteri di Luigi XVIII. L’uomo che intricato in ogni maneggio politico, Napoleone aveva definito, dicendoglielo in faccia, “Siete una merda in calze di seta”.
Il Congresso di Vienna non si svolse come un normale congresso. Non si riunì mai in sessioni plenarie, e la maggior parte delle “trattative” avveniva in incontri informali. Si era aperto con una dichiarazione di Metternich: “Gli abusi del potere generano le rivoluzioni; le rivoluzioni sono peggio di qualsiasi abuso. La prima raccomandazione è per i sovrani, la seconda per i popoli”.
Durante il Congresso si confrontarono linee politiche contrapposte: chi voleva un puro e semplice ritorno al passato, altri sostenevano un compromesso con la storia appena trascorsa: “Conservare progredendo”. Questo contrapposto modo di pensare l’azione politica nasceva paradossalmente da un unico punto di origine ideale: l’avvio di un’età di pace che gli storici avrebbero definito Restaurazione, periodo che durerà appunto dal Congresso di Vienna, fin a considerarsi concluso con i moti del 1830-’31. Per alcuni fin a lambire il fatale 1848.
Nell’età della Restaurazione si avanzava una nuova concezione della politica e della storia che smentiva quella degli illuministi basata sulla capacità degli uomini di costruire e guidare gli avvenimenti illusoriamente con la ragione. La Rivoluzione francese e il periodo napoleonico erano una dimostrazione. Mentre le società si propongono di perseguire alti e nobili fini questi venivano smentiti dalla realtà. Il secolo dei lumi era infatti tramontato nelle stragi del Terrore e il sogno di libertà nella tirannide napoleonica che, mirando alla realizzazione di un’Europa al di sopra delle singole nazioni, aveva determinato la ribellione dei singoli popoli in nome degli individuali nazionalismi.
L’età della Restaurazione considerata da una parte fosca e matrice di spinte reazionarie, altrimenti foriera di un periodo di vivace revisione estetica dell’esistente, venne fuori da quel congresso viennese brulicante di intrighi incrociati coniugato a feste e balli. Una “cronaca” del grande rendez-vous viennese si deve al conte de La Garde che resocontò qui giorni con dovizia di dettagli in Fêtes et souvenirs du Congrès de Vienne, Tableaux des Salon, recante in exergo una dichiarazione del principe de Ligne: “C’est un tissu politique tout brodé de fêtes”. “Un reame si parcellizzava o si ingrandiva durante un ballo; una indennità si concordava nel corso di una colazione; si progettava una costituzione durante una caccia; talvolta una battuta o un indovinato inciso cementava un trattato… Alle aridità, alle acrimonie delle discussioni, come per incanto, si erano sostituite, in ogni transazione, le forme più garbate e sincere… Il congresso aveva il carattere di una grande festa data in onore di una generale pacificazione… Dominata dalla gravità delle circostanze la mente poteva essere assalita ogni tanto da qualche seria preoccupazione. Ma la piacevole eco dell’universale gioia recava una seducente distrazione... Durante le feste mascherate con la complicità del domino si stabilivano delle combinazioni politiche… Intrighi che erano degli autentici capolavori…Tutti i secoli e tutti i paesi sembravano essersi dati appuntamento per conseguire un futuro felice”. E si riconoscevano in confidenziali conversari l’imperatore Alexandre della Russia, Maximilien, re di Baviera arrivato con il principe Eugène Beaurhnais, il re di Danimarca, a complimentarsi con il principe di Metternich, generoso anfitrione; Talleyrand al congresso avrebbe celebrato il proprio compleanno. Più discosti, ma presenti, gli inviati degli italici piccoli stati.
Festeggiavano lo scampato pericolo, protesi coralmente a ristabilire in Europa un equilibrio dopo gli scompigli della rivoluzione
Festeggiavano lo scampato pericolo, protesi coralmente a ristabilire in Europa un equilibrio dopo gli scompigli della rivoluzione francese e l’“ordine” napoleonico. Desideravano tutti un periodo di pace e prosperità. La festosa atmosfera ricca di promesse non fu scalfita allorquando Astolphe de Coustine, arrivato dalla Francia, recò al Congresso la notizia che Napoleone “evaso” dall’Elba stava marciando su Parigi. Malgrado il ritorno di Napoleone e la sua riassunzione del potere nel marzo 1815, il Congresso, incurante della fiammata, proseguì firmando l’atto supremo che formalizzava la geografia dell’Europa restaurata nove giorni prima della battaglia di Waterloo, avvenuta il 18 giugno 1815. Poi, storia nota: nel mezzo dell’Atlantico Sant’Elena aspettava lo sconfitto.
Si era voltato pagina. Si prospettava un tempo di promettente attendismo. Un’epoca “da riempire”. Come sempre avviene nei grandi mutamenti anche il modo di guardare alla vita sembrava aver messo a fuoco un altro punto di vista. Anche i simboli assumono nuova sostanza. Alla presenza dell’imperatore Francesco I vengono ricollocati sulla loggia di San Marco a Venezia i celebri cavalli asportati dai Francesi nel 1797 e collocati a Parigi nel 1807 come coronamento dell’Arc du Carrousel. Nel 1816, Antonio Canova, superate grandi difficoltà formali, riesce a riportare in Italia la maggior parte delle opere d’arte trasferite in Francia da Napoleone quali bottino di conquista. Per l’Italia la restituzione delle opere assume un esplicito valore di riaffermazione della propria identità nazionale.
In quegli anni Stendhal comincia a scrivere “Vita di Napoleone”. Non pubblicò mai il testo per comprensibili motivi di prudenza politica. Voleva essere la risposta alle critiche avanzate da madame de Staël, nel suo Riflessioni sulla Rivoluzione francese, ma Stendhal, che pure riteneva Napoleone superiore persino a Cesare, non esitava a sollevare critiche nei confronti dell’imperatore: non aveva colto l’occasione di cambiare il mondo, e di essere più attaccato alla vanità che alla gloria. Eppure Stendhal aveva fatto dei protagonisti dei suoi romanzi dei ferventi bonapartisti: lo sono sia Julien Sorel che Fabrizio del Dongo. E quando ambì all’incarico di console di Francia a Trieste, città nobilissima dell’Austria, Metternich all’ex napoleonico Stendhal negò l’exequatur.
La società europea dell’Ottocento è profondamente diversa da quella del Settecento. La borghesia ha acquisito una coscienza di classe
L’assetto politico scaturito dal Congresso di Vienna definito “cupamente” ritorno all’Ancien regime, manterrà i suoi caratteri fino al 1830, ma la società europea fin dall’inizio dell’Ottocento è però profondamente diversa da quella del Settecento. In quasi tutti i paesi la borghesia ha acquisito una propria coscienza di classe e si sta affermando come protagonista dello sviluppo economico. Conscia della propria importanza nella vita nazionale, cerca nuovi spazi di azione politica e si dimostra insofferente verso le strutture ereditate dall’antico ordinamento. Conseguenza dell’intraprendenza dei borghesi l’economia europea conosce un grande sviluppo. Dall’Inghilterra la rivoluzione industriale si estende ad altri paesi del Vecchio continente. L’affermazione dell’industria è dovuta a una serie di innovazioni tecnologiche, l’introduzione delle macchine a vapore, la ferrovia e le navi a vapore. Diventano centrali settori come l’estrazione del carbone e del ferro, la siderurgia, la meccanica. Si affermano così il liberalismo e il modello economico del capitalismo, in cui hanno un ruolo centrale non solo i proprietari delle imprese ma anche chi controlla i capitali e i movimenti di denaro. Ogni paese europeo anelava alla libera ricerca di una propria identità.
Profondamente mutato è anche il modo di percepire la realtà da parte degli artisti, dei letterati e dei pensatori. Basta un cenno: all’emergere e all’affermarsi del Romanticismo, fenomeno glorioso e duraturo che investirà arte, letteratura, musica, filosofia.
Un “esperimento” letterario ardito lo compie Mary Shelley che, nel 1816, si cimenta con la storia di Frankenstein, il moderno Prometeo. Affascinato dall’idea di far vivere un corpo costruito dall’unione di pezzi di cadaveri, Frankenstein vagheggia di risvegliarlo alla vita con l’elettricità, che il mondo cominciava a conoscere sempre più diffusamente. Darà a quell’ensemble anatomico la scossa, il principio di vita.
E si potrebbe anche seguitare con esempi, che ancor oggi ciascuno può trovare in sé, secondo cultura e sensibilità, che intenderebbero leggere gli anni susseguenti al Congresso di Vienna quali un cupo e sonnolento periodo di assenza esistenziale. E il suo esatto contrario.
In Italia, il romanzo quale forma espressiva, proiezione della realtà e della vita e soprattutto salvaguardia della lingua – la vera identità di un paese – stentava ad avere un qualche esito. Mancava ancora la base sociale che nel resto del Vecchio continente ne aveva consentito lo sviluppo. L’esigenza di questo mezzo di comunicazione iniziò però a farsi sentire. I romantici lombardi si impegnano nella difesa del romanzo fin dal 1816, pur continuando a considerarlo un genere inferiore. Eppure... A intuirne tutte le potenzialità è Alessandro Manzoni. Fin dalla prima stesura del Fermo e Lucia, compiuta tra il 1821 e il 1823 – sinopia dei “Promessi sposi” – don Lisander è certo che in tempi di apparente “vuoto”, attendismo di nuove istanze sociali, nelle forme più autentiche e non passatempo, la letteratura sia l’essenziale mezzo per contribuire a risvegliare la coscienza civile di un paese.