Ai tempi d'oro di Bucci
Quando l’attore e doppiatore era l’amico di famiglia che regalava tigri di carta ai bambini. Memorie arbitrarie della cronista
Flavio Bucci è morto, e a me è subito tornata in mente quell’immagine: la tigre di carta. Non quella evocata da Mao Tse Tung per descrivere gli Stati Uniti d’America o da Goffredo Bettini per descrivere Matteo Renzi. La tigre di carta l’aveva portata lui, Bucci, a casa dei miei, una sera di non so bene quale anno tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta. Avvertenza: questo pezzo è composto da memorie arbitrarie liberamente tratte dal calderone dei ricordi risalenti alla prima (un po' strana) infanzia della cronista scrivente, rimaste forse a sprazzi impressi nella mente del direttore e del responsabile dell’inserto culturale di questo giornale, i quali, alla notizia della morte di Bucci, devono aver pensato: “In redazione abbiamo qualcuno cresciuto tra attori e doppiatori…”. (Tra altre amenità dell’epoca suddetta: il Maggiolone Wolkswagen, gli autobus con il bigliettaio seduto, l’asilo Montessori situato nel quartiere di San Saba irraggiungibile dalla baby sitter nei giorni in cui c’era qualche manifestazione, cioè quasi tutti i giorni vista appunto l’epoca e, ultime ma non ultime, le bambole non Barbie ma fatte dai detenuti di non so quale carcere e la televisione-questa-sconosciuta fino all’avvento dei videogiochi, cosa che deve aver fatto pensare ai genitori: ma non sarà meglio allora la tv?).
Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, le prove al Teatro Belli che spaventavano i piccoli spettatori in piccionaia
Antefatto: alla cronista scrivente, figlia di gente di teatro quando fare teatro a Roma significava essere senza una lira ma inanellare infinite prove con molto divertimento al Teatro Belli, capitava spesso, quando aveva tre, cinque e poi più avanti anche sei o sette anni, di vedere comparire all’improvviso Flavio Bucci tra gli ospiti del proprio familiarissimo “indovina chi viene a cena?”. E lui, Bucci, era quello a cui più di ogni altra pietanza piaceva il coniglio in umido (specialità emiliano-ferrarese che mai più la madre della cronista scrivente ha cucinato in seguito, tanto che si fa fatica a ricordarla nel piatto. E però allora era servita spesso: “Viene Flavio, coniglio in umido”). E insomma Bucci era parte di una specie di piccolo circo condiviso non dal resto del mondo-bambino di quegli anni, ma dai bambini figli di famiglie sui generis, tra cui quella della Figlia del Regista di teatro poi diventato famoso, e quella della Figlia dell’altro Regista e Attore che ogni domenica ci invitava a un impegnativo (per noi) seminario di recitazione infantile in cui, dopo essere saliti in cinque sul Maggiolone di papà intriso di fumo di sigarette Gala, ci si doveva improvvisare animale, pianta, mobile e soprammobile, ma mai e poi mai il personaggio desiderato. Perché mai e poi mai si faceva, al corso di recitazione della domenica, un’improvvisazione che comprendesse una principessa, un pirata, un re, una strega, una fata, ma sempre e soltanto improvvisazioni su soggetti presi dalla fauna e dalla flora o, quando andava bene, dalle favole di Gianni Rodari e dall’enciclopedia “Io e gli altri”, quella in cui compariva la parabola motivazionale non religiosa “della bambina e della montagna”, in cui una bambina deve scalare una montagna per andare a comprare il pane per la madre malata, e ci riesce soltanto, aiutata da animaletti vari, quando non la vede nel suo maestoso complesso (il significato era: se fai un passo alla volta riuscirai in tutto).
E l’enciclopedia, per passaparola, veniva lodata e comprata, evidentemente, in tutte le famiglie dell’entourage, anche se forse non nelle altre (mai infatti fu vista, “Io e il mondo”, con mio sommo stupore, nelle case dei figli di medici, ingegneri, avvocati, impiegati e negozianti incontrati dalle elementari in poi). La tigre di carta e Flavio Bucci fanno la loro comparsa a questo punto, sul palcoscenico casalingo post-teatro di una sera invernale in cui si doveva andare a letto presto, ma in cui di dormire non si aveva voglia: “Flavio ha una tigre per te”, aveva detto l’altro attore (e mio genitore). E, nell’oscurità della stanza, dalla fessura della porta socchiusa, illuminata dalla luce proveniente dalla cucina, era comparso, in prima battuta, il faccione sorridente di Bucci, con gli occhi spalancati e la bocca spalancata, subito coperta da una specie di maschera di tigre colorata a mano: un altro faccione uguale e contrario, sovrapponibile a quello di Bucci, ma giallo-arancio, con le fauci socchiuse e lo sguardo misterioso. Da quel momento Bucci è stato promosso mentalmente “amico di mamma e papà simpatico”, a differenza di altri che erano stati etichettati, sempre nella mente, come “amici di mamma e papà antipatici” (fatta eccezione per gli esuli cileni ospitati a un certo punto, sempre ai tempi di Bucci, e accettati senza se e senza ma, forse perché qualcuno ci aveva raccontato la loro storia o forse perché apparivano più strani di noi e avevano una figlia socievole di nome Ondina).
Dalla sera della tigre, il cui faccione ha campeggiato sopra il letto a castello fino alle soglie del liceo, Bucci arrivava annunciato dalla sua risata, udibile dalla stanza in fondo alla casa fin dal primo “ciao”. Risata che veniva replicata in altre versioni, con gorgheggi, al pranzo campestre in una trattoria alle porte di Roma cui venivamo trascinati nelle giornate di sole, sempre sul Maggiolone, e a cui si restava fino alle quattro del pomeriggio, presenti io, l’amica Figlia del regista, il figlio di Bucci, più grande di noi di quei pochi anni sufficienti per non sopportarci, e la bellissima moglie di Bucci – l’attrice di nome Michi, bionda, gentile ed elegante, che a noi bambine sembrava una principessa, che fosse in trattoria o nella casa di Roma Nord dove abitava. E a pranzo Bucci tirava spesso fuori l’Aneddoto con la A maiuscola, facendo anche le imitazioni delle voci; e cioè raccontava delle sere di alcuni anni prima in cui mia madre, appena fidanzata con mio padre, dopo aver invitato gli amici tra cui lui per una cena improvvisata, molto si agitava man mano che le lancette dell’orologio cominciavano ad avvicinarsi all’orario in cui mio padre, dopo lo spettacolo, suonava il campanello, e si metteva allora a spostare bicchieri e a ordinare a Bucci di far sparire gli avanzi, e Bucci, al primo “drin” dell’evocato ospite, con aria solenne la prendeva in giro, “zitti tutti, che arriva Oreste!”. E nessuno, in quelle sere, pensava che un giorno, in morte di Bucci, sarebbe tornata in mente la frase che Bucci diceva e che ha detto anche ultimamente, come ha raccontato il regista Marco Mattolini: “Non mi dite che non devo fumare, non mi dite che non devo bere, di qualcosa devo morire”. Lo diceva anche pochi giorni fa, Bucci, alla vigilia della tournée mai cominciata dello spettacolo in cui avrebbe dovuto raccontare la sua storia personale, dal titolo “E pensare che ero partito così bene”: la storia nella storia nella storia.
Invitava tutti nella casa vicino a Spoleto. Non volle più doppiare un Depardieu troppo ingrassato per la sua voce
Poi c’erano gli altri aneddoti, tramandati fino a oggi, e ripetuti ogni volta che spunta dalle casse in cantina qualche vecchia foto di scena, con un Bucci-occhi di bragia, mio padre pallido per il cerone e mia madre vestita da cameriera. Erano ancora i suddetti anni della tigre, che poi erano per il Bucci attore gli anni d’oro. Primo episodio tramandato: c’è Bucci sul palcoscenico del Belli, durante una delle prove di “Cuore di cane” di Michail Bulgakov. Ed è talmente spaventoso, e anche spaventosamente bravo, che i bambini in piccionaia, parcheggiati ad assistere alle prove dopo l’asilo, scoppiavano a piangere disperati, temendo che Bucci, fuor di personaggio, ce l’avesse davvero con mamma e papà (doveva intervenire a calmare le acque lo stesso Bucci, con la risata o un regalo tipo la tigre di carta). Secondo episodio: c’è Bucci su un altro palcoscenico, questa volta a Vicenza. Si recita “Peer Gynt” di Henrik Ibsen. La famosa attrice Elena Zareschi, a un certo punto, deve uscire letteralmente da un enorme violoncello. Bucci deve entrare in scena e ridere. Solo che non ha ancora imparato del tutto a ridere a comando, né lui né tantomeno la collega che fa da spalla oltre a fare l’aiuto regista. E Zareschi glielo insegna, a ridere a comando: voi dovete fare come se foste senza fiato, come quando emettete un colpo di tosse. E Bucci eseguiva, a quel punto ridendo anche di suo.
Quando l’attrice famosa gli insegnò a ridere sul palco, e quando lui si presentava a cena per il famoso “coniglio in umido”
Durante un’edizione del festival di Spoleto, invece, Bucci aveva affittato un casale di campagna dove convergevano intere famiglie di amici e c’era sempre qualcuno che aggiungeva particolari agli aneddoti principali e secondari, tanto che oggi i particolari si confondono nella memoria, al punto che è impossibile ricordare esattamente quando e come Bucci si era messo in testa di far passare alla bambina non molto amante della campagna la paura dei cani, indicando tutti i cuccioli e non cuccioli anche minacciosi presenti nella tenuta. Erano anche gli anni in cui Bucci, come altri attori, aveva affiancato al teatro il doppiaggio, attività che agli occhi dei bambini dell’epoca, pur abituati alle stranezze, pareva presa da un’altra epoca e da un altro pianeta: le sale buie, l’odore del linoleum di uno stabilimento in zona Monte Mario, molto vicino a dove era stato rapito Aldo Moro, l’assoluto divieto di muoversi e parlare se lasciati entrare a vedere un padre che doppiava in sala, e il frastuono nei corridoi, dove i figli dei doppiatori venivano a volte portati dopo scuola: chi perché la tata aveva finito il suo orario, chi perché chiamato a fare “il brusio”, vociare di sottofondo in qualche film. E Bucci, a un certo punto, aveva doppiato Gérard Depardieu in un film di Marco Ferreri, film in cui l’attore francese appariva abbastanza magro, quasi magro come il Bucci di allora. E però, richiamato anni dopo dal famoso direttore di doppiaggio Mario Maldesi per dare voce a Depardieu in “Danton” di Andrzej Wajda, Bucci si era ritrovato sullo schermo l’attore francese lievitato, per non dire parecchio ingrassato. Prova che ti riprova, aveva quindi cominciato a bussare con insistenza sul vetro che separava la stanzina del direttore da quella dei doppiatori. E a quel punto lo si era udito dire: “Oh, ma qui ce vo’ uno più grosso di me” (e insomma Bucci si era da solo uniformato alla regola non scritta per cui per doppiare un magro ci vuole tendenzialmente un magro, e per doppiare un grasso ci vuole tendenzialmente un corpulento, ché la voce spesso muta al mutare della stazza). Sempre Depardieu, in anni più recenti, era stato oggetto di un paragone divertito nei ricordi dell’amico dei vecchi tempi che aveva invece doppiato l’attore francese nel film “Cyrano de Bergerac”, e anche se ormai con Bucci si erano persi di vista, gli erano tornati in mente i giorni in cui avevano recitato insieme in una miniserie tv dal titolo evocativo: “Nella città vampira. Drammi gotici”, con un Bucci mattatore nel ruolo dello studente protagonista.
Da Bulgakov a Ibsen, passando per le imitazioni delle amiche che, ansiose, aspettavano l’arrivo di un fidanzato
“A 72 anni voglio ancora giocare”, ha detto l’attore qualche tempo fa, nei panni di se stesso, dopo una vita passata a dare volto, corpo e voce ad altri, primo fra tutti al pittore Ligabue, nell’omonimo sceneggiato Rai del ’77. E infatti non si riesce a ricordarlo che così, Bucci, intento a giocare nei pazzi anni d’oro della tigre, con lo sguardo allegro sopra alle occhiaie, più ridente dell’inconfondibile risata.