Nella foto di Ferdinando Scianna, Jorge Luis Borges e Maria Kodama a Palermo invitati dalla casa editrice Novecento, 1984 (per gentile concessione dell'autore)

La vita delle statue

Valentina Bruschi

Il viaggio di Jorge Luis Borges in Sicilia, la passione per la filosofia greca e le mani che si sostituiscono agli occhi. Per ridare respiro al mito

"La cecità è una clausura, ma è anche una liberazione, una solitudine propizia alle invenzioni, una chiave e un’algebra”. Così Jorge Luis Borges conclude il prologo della sua raccolta di testi poetici dal titolo, “La rosa profunda” (1975), dove confessa di aver perduto la vista e, con questa, “soltanto la vana superficie delle cose”. Ed è proprio in omaggio alla sua “rosa mistica” che nel 1984 la casa editrice palermitana Novecento invita Borges in Sicilia per ritirare il premio “La rosa d’oro”, creato in suo onore. “In realtà non si tratta di un premio”, precisa Domitilla Alessi, direttrice di Novecento, “ma di un’onorificenza. Ed è stato Borges a proporre di perpetuare questa idea, istituendo un’assegnazione senza giuria in cui è il vincitore dell’edizione precedente a nominare il suo successore, come i cavalieri della tavola rotonda”. Chissà, forse per Borges, con la sua ironia anglosassone, era un modo di superare l’amarezza per non aver vinto il premio Nobel. 


“Borges era molto contento di andare in Sicilia. Per lui era una sorta di viaggio iniziatico alla scoperta di Palermo”


 

“Ricordo che Borges era molto contento di andare in Sicilia. Per lui era una sorta di viaggio iniziatico alla scoperta di Palermo, la città da cui si origina il nome del suo barrio natale a Buenos Aires, dell’isola di Omero e dei filosofi greci a lui tanto familiari fin da bambino”. Con queste parole, María Kodama, vedova di Jorge Luis Borges, ricorda il loro viaggio dove, paradossalmente, lo scrittore ha “visto” perché già “sapeva”. “Nelle due tasche del vestito”, continua Domitilla Alessi al Foglio, “teneva, da un lato l’Iliade e dall’altro l’Odissea, e nei momenti di pausa chiedeva a María Kodama di leggergli dei brani. Per lui la mediterraneità era un grande arcipelago mentale che includeva la Grecia e la Sicilia”. Per questo, quando venne a Palermo chiese espressamente di visitare il Museo archeologico, che ora lo ricorda con una mostra dal titolo “Quando le statue sognano”, a cura della direttrice del museo, Caterina Greco, e del critico d’arte Helga Marsala. La mostra inizia dai ritratti dello scrittore realizzati durante questa visita, documentata dagli straordinari scatti di Ferdinando Scianna, e dalla suggestiva metafora del “sogno” (“la modesta eternità che possediamo ogni notte”), cifra della poetica di Borges. E’ l’idea delle curatrici per sottolineare questa fase del “museo in transito”, in una condizione di temporanea sospensione del tempo vitale perché in attesa di un “risveglio” e della completa apertura dell’istituzione che sarà realizzata nei prossimi mesi. “La mostra è il primo appuntamento di un programma che prosegue nel corso dell’anno, pensato per trasformare l’attesa in un nuovo contenuto”, affermano le curatrici, così il tempo che precede l’inaugurazione degli ultimi due piani del museo più antico della Sicilia diventa “occasione di scoperta, disvelamento, ricerca e comunicazione”.

 

Si inizia con l’apertura straordinaria della Sala delle Colonne e l’esposizione di alcuni reperti più celebri della collezione, come il famoso Ariete bronzeo riconducibile alla cerchia di Lisippo che, insieme al suo gemello, un tempo, era a guardia del Castello Maniace di Siracusa e la Menade Farnese di età romana imperiale, opere che non hanno ancora trovato un collocamento definitivo (come altre ancora conservate nei depositi), attualmente allestite in dialogo con le opere di artisti contemporanei. Un’occasione per il pubblico di entrare nelle sale generalmente chiuse e un’anticipazione che restituisce una nuova area espositiva un tempo adibita agli uffici della direzione. A corollario della mostra, anche il progetto fotografico di Roselena Ramistella, “Ritratto di famiglia”, dedicato al backstage del museo, con i ritratti dei funzionari, dagli archeologi ai custodi, cuore pulsante e operativo dell’istituzione, e gli spazi chiusi dei depositi: magazzini che diventano set di apparizioni surreali con statue avvolte dal cellophane illuminate da luci radenti che rimandano alle atmosfere di un film. 


La Menade Farnese, rinvenuta a Roma a metà Cinquecento durante gli scavi nelle Terme di Caracalla, ritrova l’ambientazione originaria


 

Le foto di Borges sono state realizzate quando il Museo Archeologico “Antonino Salinas” si chiamava ancora Museo nazionale, e sono documento della storia e della trasformazione di un museo che continua a cambiare forma. In esse si osserva il poeta che cammina attraverso il chiostro grande, sfiora con le mani i reperti archeologici, alcuni dei quali esposti oggi davanti alle sue fotografie, in un gioco di rimandi suggestivi. In altre è María Kodama, la vista dei suoi occhi ormai spenti, che gli descrive le sculture che lei osserva per lui, oppure appoggia la mano sulla sua mentre sfiora una statua etrusca. L’uso delle mani viene sottolineato nelle fotografie di Scianna e suggerisce una umanizzazione del simulacro che è il leitmotiv di tutto il progetto museografico, evidente anche nella campagna di comunicazione, affidata ad un artista e grafico, Mimmo Rubino noto come Rub Kandy. Le immagini di Rubino sembrano dare vita alle statue addormentate perché i loro volti vengono accarezzati dalle mani di una donna, come il cosiddetto “Ritratto di Partinico” (140 d.C.), tra i maggiori esempi di ritrattistica privata romana, dimostrazione di intensità espressiva e realismo, accostato all’iconografia di Publio Elio Adriano, primo Imperatore romano “ornato di barba”. Questa immagine, che risalta su un fondo giallo, è divenuta il simbolo della campagna di comunicazione del progetto. Il tema è dar voce alle statue dormienti, rivelare i pensieri dei personaggi mitologici o storici che esse ritraggono, come se questi avessero delle vite individuali, che così vengono svelate. Anche qui torna il ricordo di María Kodama che testimonia quanto Borges amasse visitare i musei e quanto per lui questa attività fosse come andare a trovare dei “vecchi amici”, intendendo gli autori delle opere di migliaia di secoli fa con cui sentiva una prossimità. Tutto il progetto della mostra sembra essere ispirato da un’idea borgesiana di circolarità del tempo, seguendo suggestioni non-lineari e anti-cronologiche.

 

Si parte con la ricostruzione dell’ingresso di una dimora patrizia: attraversarla è come passeggiare dentro un sogno, in cui secoli di storia s’incontrano con il presente e attivano cortocircuiti temporali nel confronto tra le creazioni degli antichi e quella degli artisti di oggi. La mostra avvolge lo spettatore in un’esperienza sensoriale in cui egli viene coinvolto anche attraverso l’udito, che lo predispone a entrare in relazione in maniera diversa con l’ambiente. Superate le colonne d’ingresso, il pubblico viene circondato dal suono creato, per l’evento, dall’artista 108, al secolo Guido Bisagni: quattro tracce audio distribuite lungo il percorso espositivo, field recordings, rielaborati in studio, in cui il fruitore può riconoscere il rumore della pioggia battente, lo scrosciare dell’acqua in un ruscello, come anche il ronzio dei droni, in un contrasto sollecitato nella mente del visitatore dagli stimoli uditivi che lo inducono a spaziare tra natura incontaminata e tecnologia moderna. L’ambiente pur chiuso del museo evoca paesaggi aperti. Queste rievocazioni sonore della natura potrebbero forse essere le proiezioni delle memorie del possente Ariete di bronzo di età romana imperiale? La vibrazione dell’acqua legata ai ricordi di quando, insieme al gemello distrutto durante i moti del 1848, si trovava sull’isola di Ortigia? Oppure il brusio degli insetti evoca i boschi delle Madonie quando l’Ariete è stato donato a Giovanni Ventimiglia che lo portò nel suo maniero di Castelbuono? Questa gioco creativo anima le sale e le opere di una nuova possibilità, offrendoci un esercizio all’enigma. 


I ritratti dello scrittore realizzati durante la visita, documentata dagli scatti di Ferdinando Scianna. L’incontro con i “vecchi amici”


 

 

I suoni più onirici, che rimandano a paesaggi notturni, potrebbero essere legati alle reminiscenze o ai desideri della statua marmorea del piccolo Satiro che mesce il vino (II sec. d.C), dove si percepisce una spiritualità istintiva e misteriosa. Come nel film “Una notte al museo”, possiamo immaginare questo abitante dei boschi dalle fattezze semi ferine, con orecchie, zoccoli e coda di capra, aspettare la chiusura del museo e il calare del buio per poi chiamare a raccolta i suoi simili, rappresentati in pitture vascolari e in altri reperti disposti nelle teche del piano terra, persuaderli a scendere dal loro piedistallo per partecipare ad un banchetto sfrenato dedicato al dio dell’ebbrezza. Scenografia della festa sono le pitture parietali con festoni, tamburelli e maschere dionisiache in II stile pompeiano, provenienti dalla città di Solunto, il migliore esempio locale di tale arte in età repubblicana.

 

Grande risalto espositivo è dato alle allucinazioni cromatiche dell’artista Alessandro Roma sia attraverso i suoi arazzi di cotone che diventano scenografie, sia per le sue sculture in ceramica – reperti contemporanei di un’archeologia bizzarra – che per la statuaria antica, come l’Eracle in marmo (II sec. d.C.). L’eroe è in posizione di riposo, appoggiato a un albero e coperto dalla pelle del leone Nemeo, mentre regge in una mano i tre pomi d’oro sottratti dall’albero della conoscenza nel giardino delle Esperidi. Davanti a Ercole c’è uno sfondamento dello spazio reale creato dalla pittura su cotone e cancellazioni con candeggina dell’artista milanese. La scultura mostra la schiena visitatore ma è situata di fronte all’arazzo, come se questo paesaggio che rappresenta una natura selvaggia, fosse la proiezione del ricordo della statua, un dialogo immaginario con il suo inconscio, materializzazione psicotropa del giardino delle “Figlie della Notte” descritte da Esiodo. L’eroe delle dodici fatiche torna anche nel gruppo scultoreo in bronzo, Eracle e la cerva Cerenite, proveniente dalla “Casa di Sallustio” a Pompei, dove era parte di una fontana installata nell’atrio di una dimora signorile e dalla cui bocca fuoriusciva l’acqua che riecheggia nell’installazione sonora di sottofondo. In questa riattivazione dei sensi, il pubblico percepisce lo sforzo di Eracle nel tenere per le corna l’animale sacro ad Artemide, dea della caccia, identificata con la luna, simbolo dell’inconscio. 


L’ambiente chiuso del museo che evoca paesaggi aperti grazie al suono della natura. Le memorie dell’Ariete di bronzo 


Infine, le sculture di Alessandro Roma creano l’effetto di un’eclettica wunderkammer nell’ultima sala del percorso espositivo, dominata dalla Menade Farnese, rinvenuta a Roma a metà Cinquecento durante gli scavi nelle Terme di Caracalla. Nel 1827, la statua che all’epoca si trovava al museo di Napoli, fu scelta da Francesco I di Borbone per l’arredo della Reale tenuta di caccia “La Favorita” di Palermo, dove vi rimase – immersa nel boschetto del parco – fino agli anni ’50 del secolo scorso. L’allestimento restituisce alla Menade l’ambientazione originaria con l’ausilio di una fotografia che le fa da sfondo boschivo. Seguace di Dioniso, divinità del risveglio della natura, la scultura è la personificazione dell’energia selvaggia del mondo antico, protagonista di rituali feroci, di cui si rintraccia il riflesso nelle sculture informi in ceramica smaltata dai colori accesi (blu, verdi, gialli) di Alessandro Roma, “misteriosamente degenerate” e poste davanti alla baccante su un prezioso pavimento d’epoca romana a motivi geometrici. La Menade è ritratta anche da Fabio Sandri, presente in mostra con diverse opere, in cui il suo originale linguaggio artistico indaga l’essenza dell’impronta fotografica delle sculture antiche ritratte su carta fotosensibile, in continua impressione grazie alla luce. Queste opere sono destinate a modificarsi in una metamorfosi temporale fino alla sparizione totale. Sandri crea per la Menade una particolare “videoimpronta”, un dittico che diventa una sorta di specchio magico o della memoria in cui la statua sembra rispecchiarsi e ritrovare il proprio passato, come in un flashback di ricordi dei luoghi che ha abitato: le Terme di Caracalla, Palazzo Farnese a Campo de’ Fiori, il museo di Napoli fino al Parco Reale di Palermo. Nelle opere di Sandri la fotografia diventa performance: le statue antiche ritratte dall’artista, da Pan al Satiro versante, sono frutto di un incrocio tra un’immagine digitale (proiezione su carta fotosensibile) e una analogica (fotoimpressione), generate grazie all’azione diretta della luce sul foglio, senza l’ausilio della macchina fotografica. È la luce stessa a sbiadirle, fino alla sparizione totale, come le immagini dei sogni al risveglio, in un gioco tra presenza e assenza, visibile e invisibile, immagine dell’eterno mutare e perdurare delle cose.