Alberto Ronchey (1926-2010) diceva che si muore solo per distrazione. Dieci anni fa si è distratto e ci manca molto, ma molto. Era il migliore giornalista straniero di cui l’Italia potesse menare vanto. D’altra parte il cognome ha origine scozzese e lui era romano fin nel midollo, e solo certi romani, rigorosamente selezionati dal carattere e da una ambiziosa competenza, saltano le frontiere con un tocco di universalismo. I grandi novellieri pittori affabulatori, tra i quali eminenti i toscanissimi Gianfranco Piazzesi e Indro Montanelli, avevano il genio della provincia, da sempre nutrimento della cultura imperiale e poi comunale, signorile, italiana, e incantavano signore e popolo. Ronchey, in questo paragonabile solo a Ugo Stille, era un giornalista capitale e uno scrittore stringato, asettico, cultore dello stile fino alla mania, uno che non voleva ridere né piangere ma capire, secondo il precetto spietato di Baruch Spinoza. Non incantava nessuno ma lo leggevano tutti quelli che dovevano leggerlo, con ammirazione e con un certo rancore perfino: come ci si poteva permettere di non essere come tutti gli altri, e da dove veniva tanta temeraria noncuranza per il gradimento minuscolo del pubblico, tanta insouciance?
Abbonati per continuare a leggere
Sei già abbonato? Accedi Resta informato ovunque ti trovi grazie alla nostra offerta digitale
Le inchieste, gli editoriali, le newsletter. I grandi temi di attualità sui dispositivi che preferisci, approfondimenti quotidiani dall’Italia e dal Mondo
Il foglio web a € 8,00 per un mese Scopri tutte le soluzioni
OPPURE