Pablo Picasso era un genio dell’aforisma, gliene si attribuiscono di incerta origine, ma veritieri. Come: “A quattro anni dipingevo come Raffaello, poi ho impiegato una vita a imparare a dipingere come un bambino”. Chissà se davvero si addice al genio ragazzino di Raffaello da Urbino, che nel breve tratto di una breve vita imparò a dipingere con la felicità di un bambino divenuto in fretta grande. Il più grande, forse. C’è un altro aforisma di Picasso citato da Sylvia Ferino Pagden, presidente del Comitato scientifico, che ci porta più vicino all’ingresso di questa mostra: “Sì, da Vinci ci ha promesso il Cielo, ma Raffaello ce lo ha dato”. Eccoci al primo gradino, inevitabile per non inciampare. Leonardo e Raffaello, sempre loro. Si è da poco concluso l’anno vinciano, con la grande mostra del Louvre, ed è già ora di celebrare come si deve – cioè scoprendolo daccapo – Raffaello, nei cinquecento anni della morte. E il confronto è lì, non detto, dietro l’angolo. Confronto tra i festeggiamenti, polemiche stupido-sovraniste a parte. Perché Raffaello è il più italiano, dunque romano, dei nostri geni e riscoprire la sua arte è il migliore modo per celebrare anche noi stessi, l’Italia. In un momento in cui c’è poco da festeggiare, ma ce n’è così bisogno. Basta mettere in fila le cose. Giovedì scorso Sergio Mattarella ha dovuto rassicurare gli italiani, spronarli. Non c’è dubbio che avrebbe preferito essere libero dall’impegno ed essere invece lì, di fronte a casa, in quello che si potrebbe chiamare il “museo del presidente”, insomma alle Scuderie del Quirinale, per il primo giorno di apertura della mostra “Raffaello 1520 - 1483”. La più grande mai realizzata sull’Urbinate, un evento di cultura come da molto tempo non si vedeva in Italia e nella capitale. Un motivo d’orgoglio e l’occasione di alzare la testa, scommettere sulla resurrezione dell’arte e della bellezza. Un rilancio anche simbolico nel nome della creatività, della luminosità di un artista che ha costruito nei secoli il canone della bellezza. Il tutto con l’impegno di una produzione pubblica che sarebbe riduttivo definire soltanto “statale”, perché è invece la dimostrazione di cosa sia un servizio pubblico. Le Scuderie del Quirinale sono infatti gestite da Ales, società in house del ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo che lavora per la conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale, “il mio orgoglio per questa mostra è che non è solo una raccolta di bei quadri, non è un blockbuster, ma ha un contenuto scientifico, di approfondimento. Chi la vede può imparare, questo è fare un servizio per il pubblico”, ci dice Mario De Simoni, amministratore delegato di Ales, davanti al magnifico arazzo (uno dei sette realizzati) per la Cappella Sistina e giunto dal Vaticano. Inoltre, la mostra è coprodotta con le Gallerie degli Uffizi perché, come ci dice il direttore Eike Schmidt, incastonato tra la (sua) Madonna del Granduca e la Madonna Tempi che torna da Monaco di Baviera per la prima volta dopo secoli, “non aveva senso dividere le forze, l’ho subito pensato. Raffaello non è di Urbino, non è di Firenze, non è di Roma ma è soprattutto di Roma, cioè è dell’Italia e del mondo. Era giusto unirci”. Una mostra che nasce a Roma, dunque italiana e perciò universale. “Raffaello morì a Roma, ed è a Roma che deve la sua fama universale”, dice Sylvia Ferino-Pagden: “La mostra principale del quinto centenario della sua morte non poteva perciò svolgersi altro che a Roma. Nella città che fu dei Papi, della Curia, dei finanzieri pontifici, degli umanisti, dei letterati”. Un’esperienza bruciata in fretta – sono soltanto dodici, dal 1508 al 1520, gli anni romani di Raffaello, ci arrivò a venticinque anni, già stella di prima grandezza della pittura. Ma senza questa esperienza “non sarebbe diventato il venerato artista che oggi il mondo intero si appresta a celebrare”.
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