L'immortale Federigo Tozzi, che avrebbe voluto prendere a cazzotti chi scriveva male
“Come leggo io” fa riscoprire un maestro poco frequentato
Era un pessimo lettore, Federigo Tozzi. E se ne vantava. Confessava perfino, senza pudore, di essere manesco: avrebbe voluto prendere a cazzotti chi scriveva male, e calci nel sedere a tutti “i cialtroni e i biasciconi” della pagina. Sognava di trovarsi in una biblioteca piena dei volumi di una nuova critica, una critica portata avanti non da chi avesse “titoli di incompetenza” e di becera rassegnazione a sovrapporre ulteriori strati di polvere sugli autori del passato generando “bave cascanti e sughi acidini”, ma da chi fosse capace di ridar loro vita con coraggio e intelligenza di lettura. Sognava che gli interventi di discussione letteraria sulle pagine dei giornali non fossero affidati ai primi che capitavano, spesso limitati verbalmente, che si facessero forti o belli di amicizie confortevoli, da lì in poi, ovviamente, capaci solo di trasformare le proprie pagine in un “salotto di cialtroneria”, ma che fossero firmati da chi sapesse scrivere bene, anzi, benissimo, perché gelidi – oh, sì, gelidi – sono gli spifferi che possono esalare “i buchi rotti di certa incrinata prosetta”. Scrivere benissimo, dunque. E con lealtà. La realtà, invece, Tozzi la inchiodava così: “Tu cavi una bella mescolata di broda da una qualche marmitta in cui non hai messo sale e ti odi dire che si tratta di capolavoro. Se hai la sfortuna di scrivere un libro bello, sentirai dirne male”. Sapeva di sognare invano?
Lo sapeva, però non smetteva. “Come leggo io” (Elliot, 64 pp., €7,50 euro), meritoria raccolta dei suoi scritti letterari, è infatti un sogno a occhi aperti. Il sogno di un uomo di irremovibile serietà e di aerostatica ironia, offerto al lettore contemporaneo voglioso di arricchire il proprio pantheon letterario con un Maestro ormai pochissimo frequentato, la cui presenza tra gli immortali sarebbe giustificata anche solo dalla raccolta “Giovani”, lezione di osservazione e di scrittura in ventuno racconti; ne parlammo proprio su queste pagine. Ma perché uno come Federigo Tozzi si definiva un pessimo lettore? Innanzitutto perché era alieno: al metabolismo del gusto generale e al tendone letterario-mondano. E poi perché sapeva scegliere e disertare, senza soffrire soggezioni. Per capire cosa leggere, per esempio, si dava al carotaggio e saggiava non meno di due periodi: uno solo è poco – diceva – e magari l’autore l’ha scritto bene per sbaglio; e poi per capire se i personaggi fossero ben fatti l’unico modo era “prenderli di sorpresa, alla rovescia”, pescati fuori dal contesto. Non lo impressionavano gli svolazzi o i “pavoneggiamenti di trama”, anzi, li giudicava inutili fastidi che si frapponevano tra il libro e il lettore, tra il lettore e il godimento della scrittura. E non capiva come mai, sebbene alla maggioranza delle persone interessassero esclusivamente omicidi o suicidi, in pochi trovassero più ricchi di mistero atti quotidiani privi di significato come il gesto di camminare, fermarsi, raccogliere un sasso, guardarlo e gettarlo via.
Non sopportava la cattiva scrittura di chi credeva che scrivere fosse “adoprare parole”, e ne odiava l’approssimazione. I simpatici gli stavano antipatici – sintetizzeremmo col miglior De Gregori – e i comici lo rendevano triste. E riteneva che la democrazia letteraria fosse un pessimo segno. Incornava a testa bassa coloro i quali, “ritrovandosi quattro baiocchi in tasca”, li sperperavano nell’ennesima rassegna di poeti, mediocri leghe di resistenza all’originalità, ed era convinto che ogni scrittore dovesse disertarle, le rassegne, e isolarsi, isolarsi completamente e trarre nutrimento da questo isolamento. Pensava che le scuole e i cenacoli – “misere accademie di esasperati” – nuocessero più d’una malattia. E aveva idee limpidissime sul ruolo dello scrittore, che non era quello della zitella con problemi digestivi o del moralista berciante, ma quello di colui che ha i nervi sufficienti a non esaltarsi o deprimersi davanti agli avvenimenti, e li sa definire senza sforzo nelle sue opere d’arte. Il resto – diceva – è calligrafia interiore. Perché scrivono bene solo gli uomini che hanno davvero qualcosa da dire. “E scrivere bene significa essere padroni della propria intelligenza e della propria sensibilità”.