Ci sei mancata, Mrs Kitteridge
Il trionfale ritorno di Olive Kitteridge, insopportabile e amatissima anti eroina di Elizabeth Strout. Un romanzo che restituisce potenza e dignità al grande tumulto della vecchiaia
Proprio adesso che ci stavamo abituando a considerare la vecchiaia come un posto senza vita che riguarda solo chi è vecchio, proprio adesso che a ogni nuovo morto chiediamo: quanti anni aveva?, per capire se era un abitante del nostro o di quell’altro mondo, il mondo dei vecchi, un mondo in cui non si vive più, non si pensa più, non si ama più, non si hanno più desideri, proprio adesso, grazie a Elizabeth Strout che un giorno l’ha vista arrivare, è tornata Olive Kitteridge.
Grazie a Elizabeth Strout è tornata Olive Kitteridge, con il suo pesante giaccone rosso che la ingrossa, come succede a tutti
Con il suo grosso corpo e il suo gran tumulto. Con il bastone, da un certo punto in poi. Con le mani rugose e gonfie. Con la sua vedovanza, il suo nuovo marito e il suo cattivo carattere. Con il suo implacabile invecchiare. “Si sentì una macchina infilarsi nel vialetto, e Tom scostò la tenda per guardare fuori. – Oh, Cristo, – disse. – E’ quella vecchia ciabatta di Olive Kitteridge. Che diavolo vi viene a fare qui. – Falla entrare – disse Cindy, con la voce ovattata dai cuscini”. Falla entrare? Sei impazzita? Far entrare quella vecchia ciabatta? Amore, sei sicura? “Ho detto falla entrare. Per favore, Tom”. Eccola, Olive Kitteridge, con il suo pesante giaccone rosso che la ingrossa, come succede a tutti. Burbera, ipercritica, testarda, brutale, invisibile eppure vivissima. Di nuovo ci sembra di non poter fare a meno di lei. Non vogliamo che muoia. Anche il bastone va bene, e alla fine del libro potremo dire: decrepita, ma abbiamo un disperato bisogno della chiarezza con cui guarda l’umanità. Questa umanità ferita, incasinata, piena di dolore misto a speranza. A Crosby, nel Maine, dove la differenza la fa il panino con l’aragosta, e l’oceano in cui si può sempre decidere di farla finita. Ma il padre di Olive si era già ucciso a trent’anni, con il fucile, e Olive è aggrappata alla vita con il suo grosso corpo e con i suoi grossi sbagli.
Elizabeth Strout con “Olive Kitteridge” (pubblicato in Italia da Fazi dieci anni fa) ha vinto il premio Pulitzer, e dopo Olive Kitteridge ha scritto altri libri importanti e fondati su un principio: gli strati che la vita ti leva di dosso, e quelli che ti regala, e quelli che ti conquisti con la spietatezza. Resta con me, Tutto è possibile, Mi chiamo Lucy Barton. Ma c’è un altro principio, enunciato in Tutto è possibile, è “Siamo tutti quanti un casino”. E forse è l’unico grande principio, quello del casino, il principio su cui si fonda la letteratura. E sentirlo pronunciare da chiunque, che sia Patty la grassona o Lucy Barton che si è salvata scappando dal posto in cui è nata, che sia Jack Kennison, insegnante di Harvard in pensione che ha faticato ad accettare che sua figlia fosse lesbica, e adesso che è vecchio l’ha chiamata e le ha detto: “Sono stato uno stronzo”, e lei ha risposto: “Però adesso devo andare, pà”, questo principio scalda il cuore della nostra inadeguatezza. Scalda il cuore delle ferite inferte e di quelle subite. Ci riscalda la possibilità di leggere storie che rivelano sempre altre storie, più piccole, meno evidenti, le storie che raccontano chi siamo e perché siamo arrivati fin qui in questo stato. Una matrioska di storie: è anche lo stile di Elizabeth Strout, che attraverso il romanzo di racconti sposta continuamente il punto di vista e fa spuntare Olive Kitteridge ogni volta da un angolo diverso: attraverso lo sguardo ottuso e non coinvolto di Tom, che scosta le tendine della finestra e vede solo una vecchia ciabatta con un pesante giaccone rosso che sta scendendo dalla macchina, la vecchia insopportabile insegnante delle scuole medie, Mrs Kitteridge, alla quale nessuno vuole mai sedersi accanto alle feste. Non sa che la sua visita alla moglie malata sarà la cosa più importante di quei giorni, non può sapere che sua moglie ha scoperto di non avere niente da dirgli, adesso che sta morendo, e che però le spezza il cuore il pensiero di quella “specie di enorme bambino piccolo tutto solo”. Tom non sa che Olive Kitteridge ha paura, tanta paura, che le batte il cuore furiosamente nel petto, che si innamora ancora e ancora, che pensa a suo marito con pentimento e dolore, che non sa come comportarsi con suo figlio Christopher, e che è ancora attraversata da ondate di felicità e di desiderio. Che vuole andare avanti, e che non ha ancora capito chi è. Come noi.
Oprah Winfrey ha dedicato una lunga puntata del suo Club del Libro al grande ritorno di Olive Kitteridge (potete vederlo su Apple Tv), ha intervistato Elizabeth Strout proprio nel Maine, in una sala con vista sul porticciolo dove spesso Olive parcheggia l’automobile e va a farsi una ciambella, e tutte le persone che avevano letto il libro e facevano le loro domande a Elizabeth Strout le dicevano, nella sostanza: grazie, perché adesso mi sento meno solo. Perché quei cattivi pensieri li ho provati anche io. Perché quel senso di ingiustizia è il mio. Perché anche io mi sono sempre sentita orfana di madre, fin da piccola: mia madre è ancora viva, però io non le sono mai piaciuta.
Strout racconta le ferite che costituiscono il nostro imperfetto, barcollante stare al mondo. Gli strati che la vita ci toglie
“Per questo si dice ferire i sentimenti delle persone, perché fanno proprio male come una ferita”.
Elizabeth Strout sa raccontare le ferite che costituiscono il nostro imperfetto, barcollante stare al mondo. Le ferite inferte troppo a lungo, che ci trasformano a volte in esseri peggiori, a volte invece illuminano altri angoli di comprensione e di compassione: aprono nuove strade.
Ma questo “Olive, ancora lei” (appena pubblicato da Einaudi, tradotto magnificamente da Susanna Basso: se potete ordinarlo e riceverlo a casa fatelo, per uscire da qui, da questa emergenza, senza mai uscire dalla continua emergenza che sono le persone) è un romanzo di racconti che ha al suo centro la vecchiaia. La vecchiaia di Olive, certo, ma anche delle persone che le stanno intorno. Le persone vanno avanti, invecchiano anche mentre rimangono ferme, le mani si gonfiano, le braccia diventano flaccide, si ingrassa oppure ci si rimpicciolisce, a volte si perde quel po’ di cervello, e un giorno si cade in giardino cercando di raccogliere un mozzicone di sigaretta e non si riesce più a rialzarsi. Elizabeth Strout mostra l’implacabile durezza del tempo che passa e lascia i segni addosso e falcia via le persone. Ma fa soprattutto un’altra cosa, sorprendente, importante: mostra la forza interiore di questa vecchiaia. La fa luccicare attraverso i tormenti, i rimpianti per gli errori commessi, le restituisce tutta la dignità di una vita che non si sta spegnendo, perché fino all’ultimo desidera, sospira, sbraita, spera. Un uomo cammina per la strada di sera, senza nessuno, la moglie è rimasta come ogni volta a casa e lui pensa alla propria vita, con le mani nelle tasche e la luna piena sopra di sé. Ha sessantanove anni e pensa: qualcosa non va. Pensa di essere preoccupato per i suoi figli, così taciturni, così in fuga da lui. Poi, dopo una frase di Olive Kitteridge che qualcuno gli ha riportato e che adesso gli ritorna alla memoria, capisce che non è per i figli che è in pena, ma per sé. Per l’accettazione della vita, e delle sue umiliazioni, e di quel destino che credeva di avere scelto e che invece gli è soltanto capitato. Di cui non si è mai chiesto nulla. In fabbrica a diciott’anni, e poi sposarsi, mai mettere in conto di poter continuare gli studi, disinteressarsi della scuola.
“Ma era proprio così? Avvicinandosi all’acqua Denny vedeva l’acqua inquieta sotto la luna ed ebbe la sensazione che la sua vita fosse stata un pezzo di corteccia a galla sul fiume, come in balia dell’acqua, inconsapevole. Una vita in corsa verso la cascata”. Ecco cosa c’è di nuovo nella vecchiaia, ecco cos’è che fa sobbalzare specchiandosi nelle vetrine. Non i capelli bianchi, le braccia grosse. Ma il bilancio, i conti con se stessi e con gli altri. Il tempo che resta. Il cuore che continua a galoppare. Questa invisibilità che un giorno Olive Kitteridge definisce “una liberazione”, ma senza pensarlo davvero. Che cosa c’è di liberatorio nello stare fuori dalla mischia, quando il tuo cuore è totalmente dentro la mischia?
Un romanzo di racconti che ha al suo centro la vecchiaia. La vecchiaia di Olive, ma anche delle persone che le stanno intorno
E poi, l’amore, ancora lui.
“Jack e Olive ormai erano insieme da cinque anni; Jack aveva settantanove anni e Olive settantotto. I primi mesi avevano dormito abbracciati. Nessuno dei due dormiva tutta la notte abbracciato a qualcuno da anni. Olive metteva una gamba sopra le sue e gli appoggiava la testa sul petto e durante la notte si spostavano, ma senza mai smettere di tenersi abbracciati, e Jack pensava a quei loro corpaccioni vecchi, naufraghi, spiaggiati, e a come si aggrappavano stretti alla vita!
Non l’avrebbe mai immaginato. Il suo essere Olive in ogni fibra, il bisogno che lui aveva di lei; mai nella sua vita avrebbe immaginato di poter trascorrere i suoi ultimi anni in quel modo e con una donna così”.
L’amore a un’età in cui non è possibile ricominciare da capo. Ma è vero che non si ricomincia mai da capo. Si può solo andare avanti, con addosso tutti gli strati che la vita ci ha tolto, e ci ha dato. Con la presenza delle altre persone che abbiamo creduto di amare, che abbiamo amato. Non esiste il punto zero. Olive e Jack sono entrambi vedovi, sono entrambi pieni di nostalgia e di rimorsi, per i tradimenti, per la noncuranza, per il modo in cui si sono comportati quando credevano di avere ancora tantissimo tempo, tutto il tempo. Ma la cosa stupefacente, e per certi versi consolante, è che non si cambia mai. Non si impara dai propri errori. Non si smette di litigare o di scappare o di ferire perché si è più vecchi. Non si diventa saggi. Ma si capiscono più cose del dolore degli altri, e se il cuore non si è infeltrito per i troppi scossoni.