Una volta, intervistato da una radio, Eduard Limonov aveva detto che quando sarebbe morto lui in Russia sarebbe stata una giornata di lutto nazionale. Il concetto lo ripeteva spesso, lui che ieri è morto, ma senza drappi neri sulla Piazza Rossa e senza lutto nazionale. Come provocare in un paese che mai ha accettato la provocazione, Limonov lo sapeva bene e così dalla sua nascita ha cercato di farlo in ogni modo. E’ stato scrittore, è stato attivista, è stato poeta, è stato dissidente, è stato politico, ma è stato anche un personaggio. Personaggio nella vita e personaggio di un romanzo, non suo e nemmeno di un russo, ma di uno scrittore che russo lo è soltanto per metà e che di successo ne ha avuto molto più di lui. Emmanuel Carrère l’ha fatto conoscere ai più, gli ha dedicato un intero romanzo che come titolo porta il suo nome e con cui Limonov ha trovato la fama che aveva sempre cercato ma mai ottenuto con le sue provocazioni, i suoi libri, i suoi eccessi. Limonov ha così accettato questa fama prodotta dalla penna di un altro con distacco, non ha mai elogiato l’autore francese ma ha continuato a mantenere con lui un rapporto amichevole e diffidente insieme. Carrère soltanto la scorsa settimana in un’intervista a Robinson confessava che quando si trovava a Mosca, anche se di rado, si concedeva spesso una bevuta con lo scrittore, con il politico e con l’attivista – Limonov era tutto e tutto insieme – e diceva di continuare a vederlo come un ragazzino fedele alle sue idee. Era cresciuto in Ucraina, si era trasferito a Mosca ed era finito a New York, un russo a New York negli anni Settanta, underground quanto la sua Mosca. Il sotto terra, che Dostoevskij avrebbe forse chiamato il sottosuolo, è il mondo di Limonov e diventa anche l’argomento dei suoi romanzi, come “Il poeta russo preferisce i grandi negri” che fece innamorare i lettori parigini, la Francia gli diede anche la cittadinanza e lì scrisse “Domare una tigre a Parigi”. L’amore però non dura a lungo, quando l’Unione sovietica inizia a venire giù, bandiera dopo bandiera, statua di Stalin dopo statua di Stalin, Limonov chiede la pena di morte per Mikhail Gorbaciov. Quell’universo pieno di “falliti” che lui adorava, dove i falliti sono coloro che non hanno mai tradito, era parte dell’Urss, l’occidente Limonov non lo ha mai apprezzato. Era l’altra Unione sovietica quella che lui amava, non quella del Cremlino ma quella raccontata dallo scrittore Venedikt Erofeev, che Eduard adorava. Erofeev a quell’epoca ha dedicato un romanzo, dal titolo “Mosca sulla Vodka”, in originale “Moskva Petushki”, che è il grande racconto dello zapoj, “l’ubriacatura russa di lungo corso a cui, sotto Leonid Brezhnev, tendeva ad assomigliare la vita intera”, scrive Carrère. A quell’epoca invece Eduard ha dedicato tutta la sua vita. Sia quella del politico, sia quella dello scrittore famoso ma sempre povero, sempre underground. Di questo parla anche il suo ultimo romanzo, “Zona industriale”, che racconta la sua vita dal 2003, della trasformazione dell’altro mondo sottoterra, quello periferico inghiottito dalla nuova Russia, dai nuovi russi e dal loro inventore, Vladimir Putin.
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