Per quasi trecento anni, il romanzo è stata una delle principali forme dell’arte, forse la principale del mondo moderno, attraverso la quale abbiamo cercato di spiegarci a noi stessi”. Si apre così “The decline of the novel” (St. Augustines Press), il nuovo libro di Joseph Bottum, critico letterario e culturale americano, direttore del Classic Institute alla South Dakota University e uno dei maggiori intellettuali cattolici degli Stati Uniti (è stato direttore della rivista First Things). Secondo Bottum, il romanzo continua a riempire gli scaffali delle librerie di tutto il mondo, ma il suo “declino”, se non la sua morte, “riflette una nuova crisi nata dal crescente fallimento della nostra cultura e dai suoi dubbi terminali sui propri stessi progressi”. “Il romanzo è moribondo”, scrive Bottum. “Il romanzo nella sua massima forma mirava a reincantare. Aveva fame di conferire una sorta di bagliore agli oggetti del mondo, opponendosi alle moderne svolte della scienza tecnologica, del governo burocratico e dell’economia commerciale. Degli autori che hanno pubblicato romanzi dai primi anni Novanta, nessuno è una lettura obbligatoria. Questa mancanza di centralità culturale non è necessariamente colpa degli autori, semplicemente non leggiamo romanzi come una volta”. Bottum fa i nomi dei migliori, V.S. Naipaul, Mario Vargas Llosa, Thomas Pynchon, Philip Roth e Don DeLillo (tutti nati negli anni ‘30), J.M. Coetzee e John Irving (entrambi nati all’inizio degli anni ‘40), e poi Martin Amis e Cormac McCarthy. “Eppure, per quanto siano talentuosi, nessuno di questi si erge come gli autori inglesi fondamentali, da Daniel Defoe a Jane Austen. O come i vittoriani, da Dickens e Thackeray a Henry James. O come i modernisti, da Proust e Joyce a Thomas Mann e Ralph Ellison. O anche come i romanzieri della metà del XX secolo, da Fitzgerald, Faulkner e Hemingway a Sinclair Lewis e John Steinbeck”.
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