Quanto mancherà Alberto Arbasino a questa Italia ammalata
E' scomparso a 90 anni nella sua Milano, proprio mentre, in questi giorni folli, sulle nostre scrivanie avevamo riaperto "Un paese senza” e “Fratelli d’Italia”. Un intellettuale posato e incontenibile insieme
Quanto lo si è pensato in questi giorni, con questo panico neomanzoniano e con tanti “topos” italiani che sarebbero stati degni del suo scherno, gli aperiskype, le consegne “contactless”, il modello coreano e quello cinese, i runners, i riders e i cantici ai balconi. E’ mancato nel fine settimana Alberto Arbasino, poco dopo aver compiuto novant’anni. Proprio nella Milano della nuova peste, proprio nel momento in cui più ci sarebbe servita una nuova “Vita bassa” o almeno un rap sull’impazzimento generale da coronavirus, incistato su costumi classici e immutabili degli italiani.
Mentre si scrivevano paginate sui nuovi tic italiani i suoi libri erano sempre lì, “Un paese senza”, e naturalmente “Fratelli d’Italia”, a portata di mano. Proprio negli ultimi giorni, quando l’inedia da Corona spingeva tutti a chiederti prestazioni intellettuali gratuite, “un contributo audio e video”, “me lo mandi pure in bassa qualità”, ecco una pagina di “Fratelli d’Italia” su una Roma di sessant’anni fa non soggetta a Corona ma identica, in fondo, con economie da uffici stampa che pretendono ovviamente gratis: “Gestiscono rubriche su dove vai d’estate e cosa pensi dell’atomo”, “poi si stupiscono con candore se fai osservare che una prestazione stupida è più stancante di qualunque lavoro serio”. “In fine di mattinata incominciano le richieste guitte” e “si riconoscono perché dopo una risatina meccanica di complimenti e ‘bellissimo’ per qualche cosa attaccano con un ‘se la diverte’, che suscita gelo e sospetto immediato”.
Chissà cosa avrebbe detto di questa Roma deserta, lui che era nato a Voghera nel ’30 e “rinato a Roma”, una città sinonimo non di buche come oggi ma piuttosto con Vidal sopra torre Argentina, princess Margaret stanziale al Bolognese, Rudy Nureyev molto seccato tra una frasca e i salotti che, si lamentava, eran tutti “di comunisti”. Roma come luogo d’approdo internazionale anche fuggendo dalla triste Milano; fondale per un lavoro indefesso – molto lombardo – ma assai divertente all’opera totale: lo stile ineccepibile nell’abito come sulla pagina.
Atri tempi, altri business model, anche, giornalismo fiorente che permetteva pagine di reportage che poi diventavano saggi e poi romanzi, e poi c’era il santo vitalizio, poi sforbiciato, relativo alla breve esperienza alla Camera (che poi ricordava con orrore tra ineleganze, idiozie e la cosa più interessante fare due chiacchiere alla fotocopiatrice con Nilde Iotti).
Stava male da tempo, AA, colpito nella memoria, lui che era un Wikipedia deluxe vivente. Bastava chiedergli, e, se era in buone e se gli andava, attaccava con clamorosi backstage per pochi intimi. Stare con Alberto era come stare in “Fratelli d’Italia”; durante un viaggio nelle Marche in cui era particolarmente scatenato, bastava chiedere e lui raccontava: chi era la Cazzaniga, com’era stata quella missione da Umberto di Savoia a Cascais, nella piccola corte in esilio, dove l’ex re riceve monarchici romani che pianificano restaurazioni, ma lui è molto più interessato a certe nuove tende di amiche sue. E poi: chi è chi? Chi quella dama che si tuffò per farsi salvare dall’Avvocato? Era scatenato in quel viaggio: a un picnic di magnati locali che gli vantavano un loro giovane nipote che voleva darsi alle lettere. Conoscendolo, si restava terrorizzati. Al terzo “le dispiace” del fotografo marchigiano di corte, richiesto di spostare la testa un po’ più in là, lui rispondeva, nel suo blazer Caraceni, “le dispiace andare affanculo?”. Era scatenato, ma conservando un ritegno lombardo che nascondeva – orrore - la sensibilità. C’è un pezzo di “Fratelli d’Italia” in cui descrive un giovane intellettuale lombardo piombato nella solita Roma e che forse lo rispecchiava: “Era come Lord Jim, era ‘one of us’, un ragazzo padano beneducato che arriva a Roma coi suoi autori stranieri già letti, pronto a conoscere tutti, disponibilissimo all’amicizia e all’amore e a ‘stare al gioco’ – anche magari al gioco più greve che spiritoso dell’invettiva corporea tipica di una società alle fettuccine e all’abbacchio – ma conservando una vasta zona di vulnerabilità segreta e indifesa di fronte all’inganno, al tradimento, ai brutti scherzi, all’inutile villania”. “Un outsider venuto da un altrove, anche se qui è entrato senza sforzo nel cuore d’una società che si sforma, riforma, e deforma, conforma”.