Il metodo Arbasino
Vaffa, più principesse, più Kissinger e Glyndebourne. La ricetta arbasiniana per fuggire il male di vivere ci dice quello che non riusciamo a vedere anche sull’Italia di oggi. Addio, AA
Quanto lo si è pensato in questi giorni, con i tanti “topos” nazionali sul Corona; gli aperiskype, i runners, i riders e i cantici ai balconi. Arbasino ci lascia così, tra la peste e le stronzate, proprio nel momento in cui più delle mascherine servirebbero una nuova “Vita bassa” o almeno un rap sull’impazzimento pestilenziale incistato sui costumi classici e immutabili degli italiani.
Se n’è andato nella notte di domenica, a Milano, protetto dal fratello Mario e dal badante Nicola, mentre qui lo si compulsava e invocava per le paginate sui nuovi tic italiani, coi suoi libri sempre lì, “Un paese senza”, e naturalmente “Fratelli d’Italia”, a portata di mano.
Aborriva i piccoli fan. Il suo mezzo di comunicazione erano le celebri cartoline nonsense. Slitte da St. Moritz: “Schiocca la frusta!”
Profetico, sempre: proprio quando l’inedia da Corona spingeva tutti a chiederti prestazioni intellettuali gratuite, “un contributo audio e video”, “me lo mandi pure in bassa qualità”, ecco una pagina di “Fratelli d’Italia”, il suo romanzo nato negli anni Sessanta che illuminava una Roma di sessant’anni fa ma identica, in fondo, con la meglio società intellettuale che irrompe su whatsapp. “In fine di mattinata incominciano le richieste guitte” e “si riconoscono perché dopo una risatina meccanica di complimenti e ‘bellissimo’ per qualche cosa attaccano con un ‘se la diverte’, che suscita gelo e sospetto immediato”. “Gestiscono rubriche su dove vai d’estate e cosa pensi dell’atomo”, “poi si stupiscono con candore se fai osservare che una prestazione stupida è più stancante di qualunque lavoro serio”.
Ma anche, tumulati in casa, si apriva a caso il romanzone Adelphi e lì, ecco un altro passaggio, “l’ultima generazione che aveva letto un libro al giorno, e in tempo di guerra anche di più”, perfetta per questi tempi di peste 2.0. I “Fratelli”, la sua opera-mondo, riscritta tre volte, andava aperta così, a caso, come un I-Ching: un best of e manuale di successo e sopravvivenza per o contro gli italiani montato su un romanzo circolare o “proustiano” con plot semplice – dei giovani belli e dannati in una Roma molto diversa da quella di oggi devono partire per girare un film che non si farà mai. Finisce naturalmente malissimo, come nel “Sorpasso”.
Roma era il fondale per questo romanzo che tiene insieme tutti i filoni arbasiniani già espressi in altri libri; quello politico (“Un paese senza”; “In questo Stato”); quello narrativo (“Le piccole vacanze”, “L’Anonimo lombardo”), quello di giornalista culturale, coi reportage da new journalism da Londra Parigi e dall’America. Quello teatral-musicale, il più difficile, forse, in un paese che pur avendo inventato la musica ne è ignorantissimo, mentre AA era cresciuto alla Scala e aveva presenziato a tutti i Bayreuth e Glyndebourne. E poi il campo più misterico ancora, quello poetico con “Matinée”, “Rap 1 e 2”, dove la poesia non riguardava sentimenti ma piuttosto il fist-fucking, o la “bambinona” e la “bambinaccia”, o Pasolini (“Privacy Fair”). La posizione su Pasolini era esplicativa del metodo Arbasino: conoscenza diretta del fenomeno, sprezzatura che deriva dall’aver letto e studiato tutto, snobismo che maschera il dolore. Pasolini, prima di diventare l’icona dell’intellettuale italico su cui convergevano, come sulle chiusure domenicali dei negozi, i desideri del cattolicesimo e quelli della sinistra, era soprattutto per lui un “Caro amico allegrissimo e simpaticissimo”. “Non eri affatto macabro / né iettatorio, per niente / sinistro e saccente. Eri spesso allegrissimo, e (non solo per me) simpaticissimo”. Si chiede anche, AA, cosa sarebbe successo se invece che morire in una periferia poi “pasoliniana” fosse morto “all’Eur, alla Mater Dei / o al Gemelli o dietro un set tipo Poveri ma belli”. Di PPP Arbasino combatteva strenuamente il santino, ricordando piuttosto le allegre ammucchiate a villa Borghese; ma il delitto PPP chiudeva anche per AA un’epoca di spensieratezza e inaugurava anni di lockdown sessual-edonistico romano. E choc. Nella casa di AA dietro piazza del Popolo rimasi stupito la prima volta non tanto dalle gigantesche iniziali dorate sulla porta, o da certi soffitti cangianti da Studio 54, ma invece da quell’autoritratto doppio inquietante di PPP e AA, le loro due facce sovrapposte, simili in maniera sinistra.
Il metodo Arbasino poteva contare su un giornalismo fiorente che permetteva pagine di reportage che poi diventavano saggi e poi romanzi, secondo il business model inventato dall’amato Edmund Wilson, e poi c’era il benessere familiare che gli Arbasino, avvocati in Voghera dal 1888, consentivano, e ancora c’era il vitalizio, risarcimento danni morali di una disastrosa avventura parlamentare fatta per spirito civile nell’unico partito possibile per lui, i Repubblicani di La Malfa (padre).
E’ sempre stato di nicchia, del resto, AA, e dunque culto carbonaro tra adoratori che si scambiavano i suoi libri e leggevano le paginate su Repubblica o prima sul Giorno (che tempi). L’arbasiniano lo riconoscevi subito, erano soprattutto vecchi signori liberal e anglofili, o giovani magari molto lirici o sinfonici; una minoranza comunque e sempre. C’erano scambi e lasciti, piuttosto che acquisti. “Ti do una prima edizione di ‘Fratelli d’Italia’ in cambio di ‘Grazie per le magnifiche rose’, introvabile”. Io stesso ereditai una collezione di arbasini da Guglielmo Trillo, mitico capo della comunicazione dell’Iri, grand commis e signore. E qualcun altro mi chiamava “il banale Michele”, come lo stalliere di “Specchio delle mie brame”, pastiche a tema siculo-dannunziano tra Gattopardo e Cenerentola.
Per vivere e prosperare in un paese “invaso dagli italiani” come diceva l’amato Gadda, il metodo Arbasino prevedeva altre magie. Usare Roma “come una portaerei”, come diceva Gianni Agnelli di Torino, partire e ripartire in continuazione; e poi vivere “come se”: facendo finta di abitare “una società civilissima, illuminata e cosmopolita, di spiriti forti (ossia leggeri nel tratto, giacché incapaci di ‘gravitas’ sulle stupidaggini, e restii a lacrimarsi addosso), e di lettori con interessi abbastanza vivi e profondi per il buongoverno senza secondi fini, le belle arti come atto gratuito, la musica come pensiero e azione, la scrittura e lettura per diletto (…), un rigore sempre dissimulato ovvero non esibito full time ma solo dove è proprio indispensabile per la sincerità di base”.
A morire nel mezzo della peste, si risparmia almeno un funerale “in mezza pompa”, “che molti hanno scambiato per un cocktail party”
Poi piegare la lingua, l’italiano impacciato e poliziesco, verso un ideale esperanto musicale di questo paese immaginario, una società agognata più californiana che vaticana, dove si faceva il ’69 più che il ’68 (fu un altro suo claim di successo). AA era del resto anche un ottimo “copy”, com’era il D’Annunzio affettuosamente da lui rilanciato; la casalinga di Voghera, il tormentone, la gita a Chiasso, sono sue invenzioni. Che contribuirono a renderlo, a un certo punto, se non mainstream almeno un brand di lusso, qualcosa che tutti ritenevano di desiderare (pur non comprendendone magari tutte le citazioni mirabolanti): un Hermès della letteratura (grazie anche alla pubblicazione nelle nuance Adelphi).
Un altro stratagemma del metodo Arbasino era circondarsi di principesse e ambasciatori invece che intellettuali in crisi. Aver studiato diritto internazionale al posto di lettere gli permetteva d’aver amici nei consolati invece che tra poeti incattiviti; e li vedevi ai suoi reading, questi diplomatici rubizzi e protettivi verso quel loro quasi-collega scapestrato vestito però come loro, in doppiopetto con la rosetta di cavaliere di Gran Croce al bavero, e la parata diplomatica contribuiva per noi piccoli fan al fascino di AA. C’era infatti non secondaria la dimensione farnesina-Wasp in AA – le estati a Harvard, a sentir le conferenze di Kissinger che poi veniva a Roma a ricambiare e solo AA era in grado di organizzargli “drinks”, confermando che in Italia “alla fine un critico letterario medio sa l’inglese e il francese sempre meno bene di un marchese coglione”.
Dunque “Preghiere esaudite” capovolte: cigni di piazza del Popolo (la nostra Park Avenue) a gogò, e mille principesse o almeno duchesse romane intorno, scudi umani a difenderlo dalla realtà e da un’altra cosa che si capì solo in fondo lo terrorizzava, l’intimità (che lui avrebbe scritto aggiungendoci molte a, intimitaaaa, con la sua lingua disneyana-barocca che lui aveva reso ready made). Molto attento a non fare mai autodistruzioni alla Capote, e così, sempre, tutti i cigni operativi accaventiquattro, a spalancargli palazzi e ville come per il leggendario cocktail a palazzo Pallavicini, dalla leggendaria Ninni, per l’edizione Adelphi dei “Fratelli”.
L’aristocrazia era un’interessante dimensione non solo a Roma dove – lo si capisce subito – le principesse sono sempre state le uniche role model esportabili, ma anche in un paese con intellettuali più attenti ai posti all’università e a compilare manifesti e appelli piuttosto che scrivere romanzi e saggi memorabili. La dimensione aristocratica era anche un gioco comune da vecchia famiglia lombarda, dove tutte le nonne tradizionalmente sapevano tutte le parentele e i titoli Windsor anche senza mai essere state magari a Londra. Era un’enigmistica sofisticata e snob per connettere puntini, e ricreare un ordine dal caos. In “Fratelli d’Italia” c’è una colazione di alti prelati che discutono di Scott Fitzgerald e franano in un delirio di connessioni “fra quattro grandi mosaici minuti con le effigie di Edoardo II d’Inghilterra, Ludwig II di Baviera, Fernando II del Portogallo, Umberto II di Savoia”; e si divertono “a riconoscere l’emblema di Cleopatra VII fra gli stemmi di Clemente VIII Aldobrandini, Clemente IX Rospigliosi, Clemente X Altieri, Clemente XI Albani, Clemente XII Corsini, Clemente XIII Rezzonico”.
Stile: conoscenza diretta del fenomeno, sprezzatura che deriva dall’aver letto e studiato tutto, snobismo che maschera il dolore
Era una bestiale Wikipedia vivente, Arbasino. E il colmo è che a portarselo via non è stato il corona ma una malattia della memoria, nemesi feroce. Bastava chiedergli, e, se era in buone e se gli andava, attaccava con clamorosi backstage: durante un viaggio nelle Marche in cui era particolarmente scatenato, raccontava volentieri chi erano i personaggi: chi la Cazzaniga, chi quella dama che si tuffa per farsi salvare dall’Avvocato, e come fu che Umberto di Savoia a Cascais riceveva monarchici romani che pianificano restaurazioni, ma lui mostra molto più interesse per certe nuove tende di amiche sue.
Era scatenato in quel viaggio: a un picnic di magnati locali che gli vantavano un loro giovane nipote che voleva darsi alle lettere (pazzi!), al terzo “le dispiace”, richiesto di spostare la testa un po’ più in là, del fotografo locale di corte, lui rispondeva, nel suo blazer Caraceni, “le dispiace andare un po’ affanculo?”.
Il “vaffa” era del resto una specie di mantra, teorizzato come difesa dalle “arpie”, generalizzazione per chiunque pretendesse prestazioni gratuite, o scocciature. (“A Roma ha quasi imparato a dir bene i loro “vaffa” locali, come prima formula spontanea appena i rompi incominciano a rompere”, è sempre “Fratelli d’Italia”).
Vaffa, più principesse, più Kissinger e Glyndebourne, era la ricetta arbasiniana per fuggire il male di vivere e – perdonami, Alberto – la sensibilità: c’è un pezzo di “Fratelli” in cui descrive Antonio, il protagonista o antagonista, intellettuale lombardo piombato nella solita Roma: “Era come Lord Jim, era “one of us”, un ragazzo padano beneducato che arriva a Roma coi suoi autori stranieri già letti e la sua bisessualità (…) “fresca come una rosa”. Pronto a conoscere tutti, disponibilissimo all’amicizia e all’amore ma conservando una vasta zona di vulnerabilità segreta e indifesa di fronte all’inganno, al tradimento, ai “brutti scherzi”, all’inutile villania”.
Era un’enciclopedia vivente. E il colmo è che a portarselo via non è stato il corona ma una malattia della memoria, nemesi feroce
AA si presentava con Stefano, “l’amico Stefano”, compagno di una vita, morto nel 2018; arrivavano vestiti praticamente uguali, pantaloni grigi, camicia bianca o azzurra, cravatta regimental (mai visto Alberto con un completo, ora che ci penso). “Il mio guardaroba intellettuale contiene pochi capi interi” (Mario Praz). Due mazzi di fiori, spesso. Ma case separate. Il massimo della simbiosi consentita da un severo ritegno lombardo, e da una gayness vintage in un’Italia su queste faccende antica – “Quando due uomini vivono insieme uno dei due finisce sempre per somigliare a una cameriera”, metteva del resto in guardia in “Camere separate” Tondelli, uno degli ultimi o forse l’ultimo scrittore italiano che AA recensisse e che avesse eletto “al suo livello”. Altri schermi: “Se proprio devo definirmi, preferisco dirmi porschista, in quanto tengo in mano molto più spesso il volante della mia macchina che non un membro maschile”, altro fortunato claim arbasiniano.
Mai “a domani!”. Semmai: “A presto!, a presto!”, salutava. Mai voluti epigoni, né nipoti né nipotini. Aborriva i piccoli fan. Il suo mezzo di comunicazione erano piuttosto le celebri cartoline nonsense: slitte da St. Moritz (didascalia: “Schiocca la frusta!”). “Souvenir persepolitano” per l’immagine di San Cristoforo bizantino con testa di cane, da Atene. “Baleari + Balneari”, da Ibiza. La sua best friend Bianca Riccio raccontava di un viaggio in India tra fondamentali maragià, e di Alberto che a un certo punto se n’era andato nella notte lasciando un bigliettino, e poi si scoprì che l’aveva raggiunto la notizia della morte di un fratello, e lui era ripartito di nascosto, per non disturbare. Era fatto così: e adesso, a morire nel mezzo della peste, si risparmia almeno un funerale “in mezza pompa”, “che molti hanno scambiato per un cocktail party”, avrebbe detto, o scritto. Magari in un rap.