Le celebrazioni da urlo del "Dantedì"
La raucedine incresciosa e cupa, energica e felice, di un grand’attore isolato su una Torre, che ventila Dante senza paura
Dante è sempre stato letto in pubblico. Come dice Andrea Battistini, imponente accademico allievo di Ezio Raimondi, è dal Trecento che il suo racconto si comunica oltre il limite del pensiero poetico e concettuale fissato nell’alfabeto scritto, si propone come vocalità, suono, inflessione, registro tra luce e ombra di una corda vocale in vibrazione. E pensare che per l’Alighieri del Purgatorio la musica, cioè la vibrazione, è una cosa che s’ascolta e non s’intende. Ascoltare Dante dispensa dall’intenderlo? In certo senso sì, stando lontani dalla farraggine felice e dall’anchilosi infelice della decrittazione filologica e storica. Ora le Teche Rai di Maria Pia Ammirati ci restituiscono la voce da Dante e di Dante come spartito per attori, e riavremo Carmelo Bene e Roberto Benigni e Vittorio Gassmann e altri grandi lettori in voce del poeta assoluto, interpreti del nostro infernale purgatoriale e paradisiaco bardo prima della inaudita lezione logopedistica di Vittorio Sermonti, che ci rieducò tutti senza monumentalismi e con un colmo di ironia alla Lectura Dantis.
Li si vedrà in azione, ché poi quel che accade, se non è evento banale del consumo culturale, questo è, azione. Gassmann e altri lo riportarono in teatro con foga accademica, una dimensione che gli era estranea, profana per il suo linguaggio eruttivo, grottesco, sboccato e sacrale e senza limiti di scena, ma una dimensione necessaria. Benigni lo disse per un immenso pubblico elettronico, la dizione come estasi multitudinaria, un esperimento riuscito. Carmelo Bene fu diverso, per chi c’era quella nottata dell’assurdo fu un affondo tragico e felice, nel torbido della parola microfonata e sfuggente nell’aria, tra ondeggiamenti di piazza all’ombra delle Due Torri bolognesi. E quel che si vedrà tanti anni dopo, che rivedremo oggi, sarà il raccolto trasgressivo, custodito in una teca e poi ritrovato, di un fatto che alcuni cretini tra i cretini volevano censurare (“Ci sono cretini che hanno visto la Madonna e ci sono cretini che non hanno visto la Madonna”, disse quel grande). Bene si voleva prosecutore, inveratore, incarnatore invece che interprete, e riuscì nell’intento. Diceva di aver cantato “ventilato da un’ala di emicrania”. Quella sera, in effetti, in una città sventrata prima dall’ordalia della lotta settantasettina e poi dall’attentato alla stazione centrale con l’orologio fermo nella selva oscura, quella sera dopo tanti equivoci postmoderni, indiani metropolitani, foucaultismi, libertarismi, si sentiva sopra tutto quest’ala di emicrania che ventilava la città, il suo immenso popolo di ascoltatori venuti d’ogni dove, i suoi selciati rimbombanti, e quella voce che fuggiva tra le pietre e la carne di una generazione in preda alla follia e al mal di testa con la finta goffaggine e l’infernale birignao del sovrumano dicitore. L’indimenticabile, che è una cifra dantesca sicura, attecchì e riprodusse l’apparizione trecentesca della voce che ora la Teca restituisce nel gelo dei contatti proibiti, a vantaggio di chi allora non c’era.
L’occasione è celebrativa, l’anticipo di un anno sui sette secoli della vita esaurita di Dante, che cadono nel 2021. Il nome è un po’ fumettistico, “Dantedì”, ma nessuno ci aveva promesso un giardino di rose. Torna la raucedine incresciosa e cupa, ma energica e felice, di un grandissimo attore isolato su una Torre che ventila Dante senza paura.