Ottimismo torinese
Arte, industria e innovazione. Così il capoluogo piemontese negli anni Sessanta si è trasformato in una fabbrica di talenti
Che fatica non voler ammettere si stiano vivendo anni, giorni sulla variegata crosta di questo nostro pianeta che – come scriveva Vladimir Majakovskij – pare davvero “poco attrezzato per l’allegria!”. I travolgenti problemi sanitari di questi giorni lo dimostrano. Niente paura però, zero rimpianti, nessun pessimismo cosmico leopardiano, niente lagne vecchia maniera. Preoccupa piuttosto la consapevolezza di quanto poco potranno valere salvezze individuali avvolte, per esempio, in facili psicologismi positivistici alla Martin Seligman o, per contro, abbattersi in cinismi di scontato e decadente gusto letterario. Sono entrambi atteggiamenti giustificati ma scomposti e poco utili alla ricerca del desiderato ottimismo della ragione, quella lungimiranza critica che può ancora accendere in noi qualche energia progettuale fuori e lontano dal fatalismo o dall’annoiato tutto va bene, sentimento opaco che ha intristito persino la cultura del fare arte.
Per essere positivi allora converrà di certo affidarsi a visioni nuove, tentando di progettare percorsi creativi lontani dalla noia dei soliti obblighi, ma molto utile forse sarà riportare alla memoria momenti di grande passione e fervore corale e tentare di carpire energia e ragioni di quei clamorosi successi.
Uno straordinario esempio è rappresentato dal fervore di attività nell’arco di un decennio (1959-1969) in quella che Luca Massimo Barbero aveva definito, per un’originale mostra del 2010, Torino Sperimentale. Quello che fu chiamato il laboratorio Torino si rivelò fuor d’ogni dubbio come il più brillante esempio non solo nazionale di una vasta combinazione di forze creatrici in campo artistico e produttivo tali (con Milano e Roma s’intende) da diffondere modelli non provinciali e vocazioni internazionali tanto ricche e profonde da divenire sostanza e patrimonio dei decenni a venire.
Il viaggio multiforme dello sperimentalismo torinese inizia simbolicamente dalla Galleria Civica d’Arte Moderna del 1959
Si può provare a immaginare il viaggio multiforme dello sperimentalismo torinese partendo da una sorta di simbolico fulcro centrale, rappresentato dalla costruzione della Galleria Civica d’Arte Moderna inaugurata nel 1959 che il direttore dei Musei civici, lo storico Vittorio Viale definisce “un organismo vivo di studio e di cultura”. Vale la pena ricordare che nello stesso luogo, fin dal 1863, sorgeva il Museo Civico di Torino, prima città in Italia a promuovere una raccolta pubblica d’Arte Moderna.
Della nuova istituzione Viale scrive poi che “si tratta della prima nel nostro paese a essere progettata e costruita dalle fondamenta”. L’architettura dei tre corpi dell’edificio è concepita con criteri di assoluta modernità dai giovani architetti milanesi Bassi e Boschetti tenendo ben presenti i più aggiornati criteri per l’esposizione e la conservazione delle opere d’arte. Il 31 ottobre 1959 viene presentato alla popolazione il patrimonio artistico della città, intelligentemente ordinato nelle sezioni delle opere permanenti e in quelle destinate alle mostre temporanee, che sempre saranno di grande livello internazionale.
Una delle ultime stagioni ricche di fiducia nel nuovo, quell’idea oggi estinta di superamento continuo tutta legata ai temi della modernità
L’orientamento della Galleria è quello di valorizzare la cultura del Novecento, rivisitare le Avanguardie Storiche e, idea davvero lungimirante, è quella di rafforzare il rapporto pubblico-privato sino ad allora quasi sempre trascurato. La mostra Capolavori mette in scena insieme a opere dei maestri del Novecento italiano tra cui De Chirico, Sironi, Carrà, un rilevante nucleo di artisti internazionali tra cui Cézanne, Gauguin, Braque, Kandinskij, Picasso, Matisse. Quella che qualcuno aveva definito “culla fertile dell’avanguardia”, per tutto il decennio degli anni Sessanta vive del talento e dell’entusiasmo di due straordinari protagonisti di una stagione artistica che saprà – più d’ogni altra – alimentare i molteplici, futuri gesti espressivi di gruppi, manifesti, movimenti, quelli che saranno sostanza delle nuove radicali avanguardie a venire.
Michel Tapié de Céleyran, critico, curatore e collezionista, teorico del Tachisme in Francia che si confrontava con il coevo e dominante movimento dell’Abstract Expressionism statunitense, eleggerà Torino a territorio ideale e fruttuoso centro di rapporti con capitali internazionali come Tokyo, Parigi, New York. A leggere Barbero, l’altro personaggio chiave è rappresentato da Lucio Fontana, che troverà in Tapié un dotto interlocutore sia in ambito Informale che all’interno del progetto Art Autre, complessa e fantasiosa creatura critica del francese, senza per altro accettarne supinamente tutte le componenti teoriche. La fine degli anni Cinquanta rappresentano per Fontana il distacco totale dall’ambito informale per dirigersi alle dirompenti ricerche Spaziali che proprio in quegli anni lo eleggeranno – dopo molte delusioni ed incertezze – artista di punta in ambito internazionale.
Infatti nel 1959 Fontana partecipa a “Documenta” di Kassel e alla Biennale di San Paolo del Brasile, mentre l’ambiente torinese che frequenta con continuità si rivela determinante per l’artista e si può dire che le sue ricerche diverranno stella polare e stimolo per le nuove generazioni di artisti. Il 3 marzo 1960 apre a Torino, a opera di Tapié e Ada Minola, l’International Center of Aesthetic Research: un luogo totalmente innovativo fatto di mostre, progetti editoriali, ritrovo per artisti e galleristi, relazioni internazionali, spazio per incontri di istituzioni e studenti, stimolo ideale alle tante gallerie private che da quel momento sapranno animare la città come non mai. Sono nomi storici in ambito artistico che hanno dato vita ad un ideale innovativo non soltanto commerciale, gallerie come La Bussola, Galatea, Notizie, Narciso, Il Punto, Gissi, Sperone, Martano e Stein.
Nel 1960 apre l’International Center of Aesthetic Research: un luogo innovativo fatto di mostre, progetti. Un ritrovo per artisti
Torino si prepara a celebrare il recupero delle Avanguardie storiche come Futurismo, Dadaismo e Surrealismo e – scrive Francesca Pola – “per la sua mobilità interna e la sua centralità ideologica rispetto ai nuovi problemi della società, il sistema Torino tenderà ad assumere in particolare dopo il 1961 un ruolo guida”. Fondamentale ricordare che per il centenario dell’Unità d’Italia la città attiva in quel 1961 le sue grandi capacità concettuali e organizzative. Per l’occasione si edifica un intero quartiere nella zona sud della città, in riva al Po, da quel momento chiamato Italia 61, per dare vita a un Expo autenticamente internazionale dove celebrare le doti del Lavoro e dell’operosità, con padiglioni ed edifici disegnati da grandi architetti e con l’intervento massiccio degli artisti di punta. Il Palazzo del Lavoro, capolavoro di Pier Luigi Nervi, ospita la mostra che indaga le potenzialità scientifiche dell’operare rivolte al futuro. Sezioni come La ricerca pura e applicata, la Produttività, l’Organizzazione, le Fonti d’energia. Proprio per questo padiglione Lucio Fontana dà vita a quella sua idea, che veniva da lontano, nel progettare un affascinante ambiente spaziale solcato dalla fantasia luminosa di grovigli di tubi al neon.
E poi il Palazzo Vela che ospita l’avanguardistica mostra “Moda Stile Costume”, ricca anche d’installazioni artistiche affascinanti come l’ambiente magico del Pane di Franco Assetto, il Circarama di Disney, che sarà presente all’inaugurazione, la costruzione di un’avanguardistica monorotaia o dell’ovovia che trasportò ben quattro milioni di visitatori sulle colline di Cavoretto con l’emozionante attraversamento del fiume Po. Si può dire che la città in quegli anni stesse vivendo una mutazione costante. L’incontro felice tra le potenti realtà industriali e il desiderio forte di mettere a frutto la sperimentazione che Fiat, la vicina Olivetti e un indotto industriale e artigianale senza precedenti generano un ottimistico clima di speranza e di benessere da vivere nei giorni a venire. Quelli in cui, come scrive Aldo Cazzullo, Torino pare la città in cui “si costruiva la modernità italiana, la tecnologia, il design, la pubblicità, la comunicazione, la cultura”.
La Galleria d’Arte Moderna realizza in quegli anni una serie di mostre di alcuni dei maggiori artisti internazionali, quali Francis Bacon, Graham Sutherland, Robert e Sonia Delaunay, Giacomo Balla, Hans Richter, Hans Hartung, Kurt Schwitters, il cubofuturismo di Goncharova-Larionov, o mostre a tema tra le quali brillano Le Muse Inquietanti, Maestri del Surrealismo, o Il Sacro e il profano nell’arte dei Simbolisti, Il Cavaliere Azzurro, concepite da Luigi Carluccio, raffinato intellettuale e critico torinese dalle aperture culturali vaste e mai provinciali. Un fervore raramente visibile rimbalza di galleria in galleria mentre la genialità di Ezio Gribaudo testimonia e documenta attraverso le insuperate monografie della Fratelli Pozzo Editori il livello qualitativo realmente raggiunto.
Tapié espone Pollock, De Kooning, Kline e tutto lo straordinario Gruppo Gutai giapponese, mentre Luciano Pistoi con la Galleria Notizie spazia dal radicalismo situazionista di Pinot Gallizio alle più avanzate ricerche delle giovani generazioni come Accardi, Fabro, Paolini. Gian Enzo Sperone intuisce subito le grandi potenzialità delle nuove tendenze americane, new dada e pop, e ospita nella sua galleria la prima mostra italiana di Roy Lichtenstein, poi Andy Warhol e di seguito Dan Flavin, Rosenquist e tutti gli altri in accordo con la Galleria parigina di Ileana Sonnabend e quella di Leo Castelli a New York.
La città in quegli anni vive una mutazione costante. L’incontro felice tra le potenti realtà industriali e il desiderio di sperimentazione
Eugenio Battisti, studioso d’arte torinese, allievo di Lionello Venturi, dai primi anni Sessanta insegna all’Università di Genova dove nel 1963 fonda la rivista Marcatré con Dorfles, Sanguineti, Eco, Portoghesi e Crispolti. In quell’anno costituisce il nucleo del Museo d’Arte Sperimentale, una vasta collezione di opere raccolte fra artisti noti e giovani emergenti. Dovendo trasferirsi negli Stati Uniti, alla Penn State University, Battisti dona l’intera collezione alla Galleria d’Arte Moderna di Torino, che attraverso il solertissimo Germano Celant sarà in grado, arricchita di molte nuove donazioni, di inaugurare il 26 settembre 1967 Situazione 67, una delle mostre stimolanti per contenuti e provocazioni raramente viste. Nel catalogo Celant precisa l’obiettivo di quella ricerca sperimentale: “Liberare il linguaggio dalle strumentalizzazioni in cui è caduto per riportarlo ad uno stato di disponibilità che permetta lo sviluppo della funzione poetica ed estetica”.
S’è detto di passione e fervore per una stagione vissuta – nelle sue differenze e anche contrapposizioni – ricca di creatività corale, quasi si stesse davvero vivendo una delle ultime stagioni ricche di fiducia nel nuovo, quell’idea oggi estinta di superamento continuo tutta legata ai temi della modernità. Non soltanto le istituzioni si dedicavano a progetti dove il tratto culturale e didattico era preminente ma – in quel decennio – una nutrita serie di eventi davvero innovativi e sperimentali costellarono l’universo torinese in modo sicuramente folgorante e irripetibile.
Per la prima volta in Italia – a Torino – faceva la sua comparsa quell’arte che come diceva Robert Filliou rendeva “la vita più interessante dell’arte”. Il 26, 27 e 28 aprile del 1967 con Ben Vautier si dette vita al primo Concerto Fluxus italiano. Fluxus, quella sorta di gesto di sovversione individuale, un’arte dell’insignificanza, un’irrisione di dada che prende il via dal pensiero di George Maciunas e ricco della presenza di Yōko Ono, John Cage, La Monte Young, George Brecht. Concerti alla Galleria Il Punto di Remo Pastori e poi le strade della città ed infine una grande serata di eventi Fluxus al Teatro Stabile di Torino.
Lunedì 4 dicembre 1967 la coalizione delle tre più importanti gallerie torinesi, Christian Stein, Il Punto, Sperone danno il via a una mostra concepita da Daniela Palazzoli il cui titolo, Con-temp-l’azione, lasciava trapelare la sua radice di taglio situazionista nel mettere insieme undici artisti legati tutti al tema della ricerca dell’inesplorato e legati anche fisicamente da Aldo Mondino, che tende un filo rosso attraverso le strade a collegare le tre gallerie. Scrive Gian Enzo Sperone: “Nel 1967, precedendo ancora le non organizzate istanze sovversive del ’68, aprimmo una sede alternativa alla galleria di Piazza Carlo Alberto in un immenso garage dall’altra parte del Po, ipotizzando un modello organizzativo e fruitivo dell’arte che la depistasse dai consueti binari della decorazione e consolazione”. E’ la nascita del Deposito d’Arte Presente. Anni in cui Celant andava teorizzando in un manifesto l’Arte Povera definendola come una compagine dotata della forza di una vera guerriglia. Entusiasmi utopici che sarebbero serviti in realtà per tenere insieme un gruppo di artisti mai omogeneo, trasformato presto dal mercato in una originale e ricca categoria utile a vincere anche non poche battaglie economiche.
Limite e inutilità forse riportare alla luce stagioni di passati entusiasmi, quelli che la storia non si cura certo di riprodurre a nostro piacere. Vale però ricordare quel clima di ottimismo sperimentale e corale, quello in grado davvero di dar senso all’imperativo categorico del poeta che ci chiede in qualche modo di tentare di “strappare la gioia ai giorni futuri”.