Chiodo scaccia chiodo
Rileggere Philip Dick è un’ottima soluzione per sprofondare in situazioni persino peggiori della quarantena
Magari non sentite (come noi) l’impellente bisogno di uscirne migliori. E invece (a differenza di noi) approfittate della quarantena per affrontare le Grandi Questioni: da dove veniamo, dove andiamo, qual è il senso della vita e quando riapriranno i parrucchieri (Woody Allen perdonerà se gli copiamo la battuta, lui si interrogava sull’esistenza di Dio e sugli idraulici la domenica).
Viene in soccorso la cosmogonia di Philip Dick: “L’universo è una pinta di birra con la schiuma, noi siamo bollicine in mezzo a tutta quella schiuma. Può capitare che alcuni, da dentro la loro bollicina, scorgano il volto di colui che versa la birra”. Di tutte le visioni del mondo, questa è detta “l’alcolica”. Stavolta prendiamo a prestito una storia di Juan Rodolfo Wilcock, in “La sinagoga degli iconoclasti”: “L’apparecchio consiste in due eliche di ottone incastrate in modo che, lentamente girando ciascuna intorno all’altra e dentro l’altra, dimostrano l’esistenza di Dio. Delle cinque prove classiche, questa è detta la prova meccanica”.
Philip Dick potrebbe sembrare inadatto alla presente circostanza, ma funziona bene come “chiodo scaccia chiodo”. Vale a dire: sprofondiamoci per un po' in situazioni peggiori della nostra – siamo il tipo di lettore che si immedesima, non resta freddo, e per questo abbiamo in antipatia i postmoderni che avvertono: “Stai leggendo un libro, è tutto finto, il grande burattinaio sono io, ovvero lo scrittore, e a mio capriccio ti buco il palloncino o rovescio il tavolo”. Dal tuffo nella più nera cupaggine usciremo sollevati, ricavandone magari qualche suggerimento.
Il 1992 di “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” – scritto da Philip Dick nel 1968 – era molto peggio del nostro (vale anche per il 1984 di George Orwell). Nel 1982 Ridley Scott ne ha tratto “Blade Runner” (vengono le vertigini, il 1992 era ancora futuro). Harrison Ford era un cacciatore di androidi solitario, con modi bruschi alla Philip Marlowe (per ripassare, c’è Netflix). Il romanzo si apre in un interno coniugale.
“Una gioviale scossetta elettrica, trasmessa dalla sveglia automatica incorporata nel modulatore d’umore che si trovava vicino al letto, svegliò Rick Deckard” (evviva gli scrittori che cominciano i romanzi senza cincischiare). “Non voglio svegliarmi”, mugugna la consorte, quando lui le suggerisce di programmare con più cura la scossa da risveglio. Sul modulatore d’umore lei ha programmato “depressione auto-accusatoria”. Servirebbe un bel codice 481: “Consapevolezza delle molteplici possibilità che si aprono nel futuro”.
Se volete sapere come va a finire – non la caccia agli androidi, di quella sappiamo, va detto però che nel romanzo non c’è traccia di romanticismo – una bella versione, letta da Marco Cavalcoli, sta nell’archivio di “Ad alta voce” (su RaiPlay Radio). Se la cura “chiodo scaccia chiodo” comincia a fare effetto, su Amazon c’è la serie “Electric Dreams”, dieci storie di Philip Dick. Non è come poter contare su un modulatore d’umore, ma un sollievo lo procura.