Uno dei tanti movimenti di questa quarantena internazionale: gli orsacchiotti alle finestre. Quello nella foto è a Christchurch, in Nuova Zelanda (AP Photo/Mark Baker)

Il cielo in una stanza

Fabiana Giacomotti

In viaggio nella propria camera, superando l’abitudine degli oggetti. Così si inganna il tempo nei giorni di reclusione secondo De Maistre

Con gli arresti domiciliari che iniziano a farsi davvero lunghi, ci accorgiamo di aver acquisito quasi inconsapevolmente il lessico di certi detenuti di cui abbiamo letto al liceo e in università, i Silvio Pellico, i De Sade, il Gramsci delle lettere alla famiglia. La rassegnazione mista alla rabbia, la curiosità per il “mondo di fuori”, la voglia di fare alternata agli stati di pigrizia narcolettica, e soprattutto la nostalgia degli affetti trasferita agli oggetti inanimati. “Ormai parlo con i mobili”, esordisce appunto l’amica che vive sola quando la chiamiamo al telefono, un mezzo tornato prepotentemente alla ribalta a discapito della messaggistica whatsapp e delle formule di cortesia già memorizzate e pronte all’uso che un tempo rifilavamo ai seccatori appena ne scorgevano il nome sul display (“Posso chiamarti più tardi?”, “Scusa sono in riunione”, “non posso rispondere”, “Sto arrivando”, e i bene educati ti rispondevano, raddoppiandoti il senso di colpa). Esauriti anche i flash mob, perché intonare “Azzurro” fra un bollettino della Protezione Civile e l’altro suona blasfemo e anche perché, ammettiamolo, in tanti siamo davvero stonati, la nostra incontenibile voglia di far conversazione, genere Sabrina Ferilli dei tempi delle campagne Wind “quanto ce piace chiacchiera’”, ha preso la forma della più eccentrica e della più temuta fra le alterazioni comportamentali: parlare del più e del meno con il comodino, discutere con la tazzina del caffè come Belle della favola o d’amore con noi stessi come Cherubino ma senza il suo tenero sconvolgimento d’ormoni giovanili. Parliamo con i muri, per parietem loqui, come scriveva Erasmo da Rotterdam nei suoi “Adagia”, interrogandosi sulla proprietà di moto a luogo della silloge, come se parlando con i muri in realtà li attraversassimo, che in effetti è proprio quanto cerchiamo di fare dopo quasi un mese chiusi in casa.


Parliamo con i muri, come se potessimo attraversarli, che in effetti è proprio quanto cerchiamo di fare dopo quasi un mese in casa


 

“Più di ogni altra cosa temo il momento in cui il buffet mi risponderà”, scrive su Facebook un conoscente più lontano che anche lui, come tanti in questi giorni, si è procurato il diario della più celebre delle tante reclusioni letterarie. E’ il “Viaggio intorno alla mia stanza” che l’ufficiale savoiardo Xavier de Maistre scrisse (ma non pubblicò: lo fece al suo posto il celebre fratello filosofo, Joseph de Maistre, qualche anno dopo) nel marzo del 1790 a Torino, per ingannare il tempo nei quarantadue giorni di reclusione che gli erano stati comminati al termine di un duello d’onore non autorizzato con un certo Patono de Meyran, di cui sappiamo niente come dei motivi che lo provocarono. Eppure la lettura del libretto, con tutti quei richiami alle labbra di corallo dell’una e agli occhi azzurro cielo dell’altra, qualche sospetto ce lo fanno venire. Senza andare a cercarlo fra gli scaffali di casa (dovrebbe stare dalle parti del “Viaggio sentimentale” di Sterne che ne è un parente stretto ma ogni tanto ci prende appunto la pigrizia, sappiamo che è lassù in alto a destra e che dunque ci tocca spostare la scala) l’abbiamo scaricato online nella prima traduzione del 1823, in copia anastatica, e poi nel sequel “Spedizione notturna nella mia stanza”, scritto dopo l’inaspettato successo letterario del debutto, nella migliore delle traduzioni conosciute che è quella del 1832 di Paolina Leopardi, sorella di Giacomo, un’altra che di solitudini nei natii borghi selvaggi si intendeva moltissimo e che, citiamo l’importante saggio di Raffaele De Cesare sul suo lavoro, “offre una qualità di traduzione di prim’ordine” perché “sa sovrapporre al verbo francese quello che è più proprio in italiano”.


“Il piacere che si prova viaggiando nella propria camera è al riparo dall’inquieta invidia degli uomini e non dipende dalla fortuna”


 

Rendere in italiano il verbo francese “arpenter”, che include nel movimento il ronzare di una mosca, è piuttosto difficile, e tenere in gabbia Xavier de Maistre doveva esserlo in maniera particolare ancorché i Savoia fossero notoriamente tignosi e la compagnia della cagnolina Rosine e del servitore Joanetti dovessero alleggerirgli la pena. A giudicare dall’unico ritratto circolante era molto meno bello del pronipote omonimo, un arpista di fama mondiale che oggi incanta le platee femminili e maschili, ma l’ufficiale del reggimento sardo di fanteria “La Marina” Xavier de Maistre era quel che si definirebbe costituzionalmente un inquieto. Indolente al punto che in famiglia, a Chambéry, era soprannominato “Baban”, perdigiorno, era colto ma poco incline a considerare la scrittura un mestiere; innamorato della scienza e della fisica (sfidò il successo dei Montgolfier sorvolando il Piemonte in pallone aerostatico con un amico), era incapace di applicarvisi seriamente; buon pittore, si risolse a qualche commissione da parte dello zar. Era un ottimo soldato, su questo non ci sono dubbi. Nella sua lunghissima vita (sarebbe morto nel 1852, salutato da Sainte Beuve), il conte De Maistre visse in prima persona i momenti fondamentali della storia europea, conoscendo tutti i personaggi che ne segnarono l’evoluzione, militare e intellettuale: ufficiale dei Savoia prima e poi dell’esercito russo in odio contro Napoleone, si sposò con la principessa Sofia Zagriatskaja, zia della moglie di Alexandr Pushkin, e viaggiò molto in Italia, dove conobbe Alessandro Manzoni e, forse, l’ultima figlia Matilde che avrebbe inviato le sue opere all’amica Paolina Leopardi. Che un tipo simile avesse raggiunto la fama grazie a due diari di prigionia galante è la prova dell’eccentricità della nostra esistenza e il motivo per cui vale la pena di leggerli adesso. Il “Viaggio” come momento di sorridente, filosofica accettazione, la “Spedizione” come fuga immaginifica e romantica, e divertirsi come fa l’autore ad attraversare la stanza tenendosi in equilibrio su due gambe della poltroncina, a parlare con una rosa secca o a seguire la traiettoria del sole dal suo riflesso sulle cortine rosse del letto, “che è il teatro variabile in cui il genere umano rappresenta a vicenda drammi commoventi, farse risibili e tragedie spaventevoli; è una culla guernita di fiori; è il trono dell’amore; è un sepolcro”. Come scriveva Friedrich Nitezsche quando, arrivando a Torino circa un secolo dopo, capitò anche a lui fra le mani il “Viaggio”, l’umanità si divide tra quelli come Xavier, una minoranza che sa fare molto con poco, e una maggioranza che sa fare poco con molto. La vecchia storia di chi trova nella fruttiera solo limoni e ne fa una eccezionale limonata. Pochi metri quadrati, un’energia incontenibile da tenervi rinchiusa.


 

Il “Viaggio intorno alla mia stanza” che l’ufficiale savoiardo Xavier de Maistre scrisse nel marzo del 1790 a Torino


 

In quei quarantadue giorni del marzo 1790, Xavier de Maistre aveva dunque imparato a trarre il meglio dalla propria camera nel Forte di Fenestrelle, la “Grande Muraglia” come la chiamano i torinesi e che a dispetto o forse proprio per via dell’aspetto tetro e imponente sarebbe tornata utile ad Alexandre Dumas, che certamente l’aveva vista come militare al seguito di Napoleone, per arricchire il racconto dell’abate Faria al Conte di Montecristo. Ne aveva calcolato la latitudine “secondo le misure di Beccaria”, ne aveva contemplato gli arredi: cassettone, scrittoio, seggiola a braccioli, letto con le cortine. La specchiera, importantissimo simbolo: doppio dei volti amati e anche di se stessi. Philosophe più per contiguità di famiglia che per vera ispirazione, lungo tutto il Viaggio Xavier de Maistre tenta di sdoppiare il sé nella duplicità platonica dell’anima e dell’“altra”, la propria parte spirituale, che tenta con molta fatica di elevarsi, e quella bassa, materica, che definisce affettuosamente la Bestia, e che lo serve fedelmente tostandogli il pane e facendogli il caffè, ma finendo per distrarlo dai tentativi di accedere a livelli più alti di conoscenza. Comunque, diciamo che il burn out da superlavoro che gli esoteristi d’accatto attribuiscono alle tante colpe umane da cui il coronavirus ci starebbe emendando non era certo un problema di Baban, che anzi si compiaceva della propria aristocratica inerzia: “Io non amo chi è sì padrone dei suoi passi e delle sue idee da poter dire: oggi farò tre visite, scriverò tre lettere, finirò quest’opera che ho cominciata. La mia anima è talmente aperta ad ogni sorta di pensieri, di gusti, di sentimenti (…) incontrando in cammino la mia seggiola a bracciuoli, non fo complimenti, e mi vi adagio immediatamente”. Dunque procede a zig zag, cade dalla sedia, va a sbattere contro lo scrittoio, consulta la libreria, scova la rosa rinsecchita in un cassettone, contempla una scultura, si trasferisce a letto. I capitoli sono irregolari per lunghezza, tema, ispirazione. Il XII, intitolato “lo sterrato”, ai nostri occhi abituati alla sintesi dei social potrebbe apparire come un post di Instagram: un’immagine a stampa, quattro file di trattini, null’altro. Per Paolina Leopardi, sorvegliata a vista dal terribile padre Monaldo dopo una serie di abboccamenti matrimoniali finiti male e un unico grande amore finito peggio, la lettura di De Maistre doveva essere stata una rivelazione. La scoperta di una possibile via d’uscita dalle ristrettezze e dai dolori dell’esistenza con la mente, un tema che lo stesso autore aveva peraltro già esplorato, giovanissimo, nel racconto “Le prisonnier et le papillon”: si può fuggire da qualsiasi prigione con le ali della farfalla, simbolo di mutazione esistenziale, della fuga dal sé e della rinascita, senza altra legge se non quella del proprio capriccio. Paolina Leopardi leggeva che “il piacere che si prova viaggiando nella propria camera è la riparo dall’inquieta invidia degli uomini e non dipende dalla fortuna (…)” e osservava quante cose la accomunassero al sentire di quell’uomo che alternava le esplorazioni vere, e a lei impossibili, a quelle del pensiero, che per tutti gli anni dell’infanzia erano state il rifugio suo e del fratello prediletto. Nella “Spedizione” le pareva di ritrovare il senso dei suoi ragionamenti con Giacomo, l’amato “Momuccio”, del senso della reclusione patito, degli slanci dell’immaginazione per sfuggirne. “Io non mi azzardo a dire il rigido sistema di osservazione in cui sono tenuta, e che mi fa sicura di non trovar pace fuor che… tu mi comprendi dove”, scriveva la contessina di Recanati negli anni Trenta dell’Ottocento all’amica Marianna Brighenti a Bologna, che avrebbe conosciuto davvero solo alla metà del secolo, nei suoi ultimi anni finalmente liberi dall’oppressiva presenza dei genitori, l’unico periodo quasi felice della sua esistenza in cui avrebbe viaggiato per l’Italia senza soste, sulle orme del fratello scomparso da tempo, conoscendo finalmente i volti dei corrispondenti di una vita. Fantasticare l’aiutava ad evadere, e sicuramente la “Spedizione” le era più vicina del Viaggio: “Ogni oggetto mi richiamava al pensiero qualche avvenimento della mia vita, e la mia camera era piena di rimembranze”.


 L’umanità si divide tra quelli come Xavier, una minoranza che sa fare molto con poco, e una maggioranza che sa fare poco con molto


De Maistre non viveva certo il tema delle rimembranze con lo stesso spirito di Leopardi. Vi sono però delle lettere, dei passaggi che sembrano accomunare i due, soprattutto in un appunto dello Zibaldone del 1823 in cui, ricorda in un saggio la ricercatrice Elisabetta Benucci dell’Università di Firenze, il poeta evoca i ricordi destati dagli oggetti che agiscono sull’immaginazione grazie alla vista. La rimembranza (purché felice, che è la grande differenza fra i due fratelli Leopardi e l’ufficiale savoiardo affamato di vita) aiuta a far trascorrere il tempo inoccupato in modo non ozioso: “Io mi lego con vera affezione a tutto ciò che mi circonda. Amo le vie in cui passo; la fontana ove bevo; non mi separo senza pena dal ramicello che a caso ho tolto da una spiepe, e dopo averlo gettato via lo riguardo ancora, poiché avevamo già fatto conoscenza; amo le foglie che cadono, ed anche lo zefiro che passa”. Scrive Alain de Botton che se solo riuscissimo a vivere il nostro ambiente quotidiano con lo spirito del viaggiatore, potremmo scoprire quanto sia interessante. “A casa le nostre aspettative si atrofizzano. Siamo certi di aver scoperto tutto quello che c’era da scoprire. L’abitudine ci ha resi ciechi”. Eppure, il buffet della nonna sarebbe uno spunto fantastico.