La peste di Roma
Altro che punizioni divine. Animali, traffici commerciali, guerre e clima. Così tre pandemie fra il II e il VI secolo portarono al collasso l’Impero
Costretti dalla crescente irruzione della civiltà globalizzata in spazi e paesaggi prima incontaminati, virus e batteri abbandonano gli animali selvaggi su cui erano abituati a vivere e saltano addosso agli esseri umani. Favorito dai traffici commerciali di una globalizzazione che ha coperto il pianeta con reti di commercio sempre più fitte, il contagio nato in Asia si sparge verso ovest e diventa pandemia globale. E si abbatte in modo devastante su un processo di integrazione europeo che sembrava trionfante, e che ha dato all’occidente decenni di pace, ma si è anche imbarcato in guerre complicate per esportare i valori della sua civiltà in territori difficili. La moneta unica diventa insostenibile, i cambiamenti climatici accrescono i danni. In breve, l’Europa e la stessa globalizzazione collassano.
No: non stiamo parlando del coronavirus. E’ lo scenario descritto da un libro uscito in inglese il 2 ottobre del 2017, e in traduzione italiana il 9 aprile 2019. Una profezia allora? Sul finale forse no. Ma in realtà “The Fate of Rome: Climate, Disease, and the End of an Empire”, libro di Kype Harper titolato in italiano “Il destino di Roma: Clima, epidemie e la fine di un impero”, non parla di futuro o presente, ma di passato. Il modo in cui tre pandemie tra II e VI secolo portarono al collasso l’Impero romano, in concomitanza con un micidiale cambiamento climatico che all’epoca non poteva ovviamente essere attribuito all’essere umano, ma che si verificò lo stesso.
La Roma del III secolo era una città che mai il mondo aveva visto prima: un milione di abitanti, biblioteche, acquedotti, bordelli
Come ricorda Harper, la Roma del III secolo era una città quale mai il mondo aveva mai visto prima, e che mai più il mondo avrebbe visto prima della Londra ottocentesca della Rivoluzione industriale. Un milione di abitanti, 28 biblioteche, 19 acquedotti, 2 circhi, 37 porte, 423 sobborghi, 46.602 palazzi, 1.790 case di grandi dimensioni, 290 granai, 856 stabilimenti termali, 1.352 cisterne, 254 panifici, 46 bordelli, 144 latrine pubbliche. “Il 21 aprile del 248 d.C. la città di Roma celebrò 1.000 anni dalla sua fondazione”. Imperatore era Filippo l’Arabo: un mediorientale forse segretamente cristiano, che era potuto diventare Augusto con la stessa naturalezza per cui un nero ha potuto essere eletto presidente degli Stati Uniti, o un oriundo pachistano sindaco di Londra. “Per tre giorni e tre notti i fumi delle offerte bruciate sugli altari e il suono degli inni sacri riempirono le strade. Fu offerto al popolo il massacro di un vero e proprio zoo, con le più stravaganti creature provenienti da tutto il mondo: trentadue elefanti, dieci alci, dieci tigri, sessanta leoni, trenta leopardi, sei ippopotami, dieci giraffe, un rinoceronte (difficile da trovare, ma di incomparabile fascino) e innumerevoli altri animali selvaggi, per non parlare delle mille coppie di gladiatori”.
“Alme Sol, curru nitido diem qui / promis et celas aliusque et idem / nasceris, possis nihil urbe Roma / visere maius”, aveva celebrato nel 17 a.C. il Carmen saeculare commissionato da Augusto a Orazio. Tutto sommato, si può ancora utilizzare la traduzione-perifrasi in italiano di Fausto Salvatori che Giacomo Puccini mise in musica col titolo di “Inno a Roma”, malgrado il cattivo uso che ne avrebbe poi fatto il fascismo. “Sole che sorgi libero e giocondo / sul colle nostro i tuoi cavalli doma; / tu non vedrai nessuna cosa al mondo / maggior di Roma”. Era capitale di uno stato di 75 milioni di abitanti, pari a un quarto della popolazione mondiale dell’epoca. Unendo l’Europa al bacino del Mediterraneo, l’Impero si estendeva dal 65 al 24esimo parallelo. Oltre che capitale politica quella Roma era anche il terminale di una fitta di rete di commerci che arrivava fino all’Africa subsahariana, all’India e alla Cina. Il sistema pensionistico per i legionari e il reddito di cittadinanza delle frumentationes anticipavano sistemi di welfare che il mondo sarebbe tornato a conoscere solo nel XX secolo, un esercito capace di schierare mezzo milione di uomini rappresentava la più straordinaria macchina da guerra della storia, e una moneta unica basata sull’argento permetteva di far girare l’economia in modo da portare prodotti di fabbricazione industriale anche nelle case più umili.
Docente di Lettere classiche all’Università dell’Oklahoma, per il suo lavoro Kyle Harper è partito dalle fonti dell’epoca. Per esempio, il “Virgilio” che ci guida nell’inferno della “Peste antonina” del 165 è Galeno: il grande medico greco le cui teorie avrebbero improntato la medicina occidentale per 13 secoli, e dal cui nome deriva tuttora la “galenica”, ovvero l’arte di preparare i farmaci da parte del farmacista in farmacia. Per la “Peste di Cipriano” del 251-270 il punto di riferimento sono gli scritti di Tascio Cecilio Cipriano: il vescovo di Cartagine e Padre della chiesa venerato come San Cipriano, che sei anni prima di morire come martire scrisse un pamphlet intitolato “Della mortalità” in cui non solo racconta di come avesse creato una ong ante litteram per assistere i malati e seppellire i morti, ma dà anche preziosissime informazioni sul morbo.
Giustiniano sembrò poter ripristinare l’unità dell’Impero. Ma anche il suo nome finì per essere legato a una pandemia
Oltre che la fine di Roma l’opera segue anche l’inizio dell’Impero Bizantino, che a un certo punto con Giustiniano sembrò poter ripristinare l’unità dell’Impero. Ma anche il suo nome finì invece per essere legato a una pandemia. Per la “Peste di Giustiniano” del 541-42 Harper si affida a Procopio di Cesarea: avvocato e uomo pubblico autore sia di una “Storia delle guerre” e di un “Sugli Edifici” entusiastici sull’operato dell’imperatore; di una “Storia segreta” che ne diceva invece peste e corna, denigrando l’imperatrice Teodora come una donna di facili costumi. Lo integra però con Giovanni di Efeso, vescovo e apologeta in lingua siriaca.
Oltre ai testi scritti e all’archeologia, però, Harper ricorre anche alla scienza medica, secondo un filone di indagine sull’influenza delle malattie nella storia di cui fu iniziatore William McNeill. Docente all’Università di Chicago, McNeill è autore nel 1976 di un fondamentale “Plagues and Peoples” che è stato tradotto in italiano come “La peste nella storia: epidemie, morbi e contagio dall’antichità all’età contemporanea”. Il culmine di questi studi è stato nel 1996 “Guns, Germs and Steel: The Fates of Human Societies” di Jared Diamond. Tradotto in italiano come “Armi, acciaio e malattie. Breve storia degli ultimi tredicimila anni”, best-seller e Premio Pulitzer. Ovviamente in tempo di coronavirus non si può dimenticare “Spillover. L’evoluzione delle pandemie” di David Quammen. Uscito nel 2012, ha perso il tono di profezia, ed è balzato in testa alle classifiche delle vendite librarie quando è iniziata questa pandemia.
Rispetto a McNeill o anche a Diamond, Harper nelle sue ricerche è stato in grado di utilizzare le più recenti tecniche di indagine col Dna. In più, in un’epoca ossessionata dai cambiamenti climatici ha utilizzato anche i dati della storia metereologica. E ci spiega come tra 200 a.C e 150 d.C. il Mediterraneo conobbe un “optimum climatico romano” che “trasformò le terre governate da Roma in una gigantesca serra”, permettendo un boom demografico. Questo boom portò ovviamente a colonizzare terre prima disabitate e marginali, secondo quanto testimoniò Tertulliano: “E’ chiaro che il mondo è più intensamente coltivato ed edificato che nei tempi antichi. Tutti i luoghi sono ora attraversati da strade secondarie, tutti sono conosciuti, in tutti si possono concludere affari. I poderi più belli hanno cancellato quelle che una volta erano lande famose per la loro desolazione. La foresta più profonda cede vieppiú ai campi arati. Gli animali selvatici fuggono davanti alle nostre mandrie. Si seminano terre semidesertiche e si coltivano piante in campi rocciosi. Le paludi sono state prosciugate, e dove una volta vi erano semplici casolari ora sorgono grandi città. Nessuno teme più un’isola solitaria né le sue spiagge scoscese. Ovunque ci sono case, gente ovunque, ovunque la città, ovunque la vita! E la più grande testimonianza di tutto questo è l’abbondanza del genere umano”.
Harper ci ricorda come l’apologista cristiano, in genere piuttosto acido, scriveva questo non per lodare il sistema, ma per contestare la teoria della reincarnazione, come a dire che non avrebbero potuto esserci abbastanza anime pregresse per popolare tutti questo corpi nuovi. La sua visione è però puntualmente confermata dai dati archeologici. Ma la civiltà che fa irruzione in luoghi selvaggi provoca appunto quello spillover o zoonosi di cui parla Quammen, dopo averla vista all’opera in varie parti del mondo. Virus e batteri che con la cacciata o estinzione degli animali a cui erano abituati a stare addosso saltano sull’uomo, o su altrui animali abituati a stare addosso all’uomo. E poi i circuiti della globalizzazione fanno girare il contagio.
I romani combattevano in Iraq contro i Parti, Seleucia fu saccheggiata. Apollo si sarebbe vendicato con la Peste Antonina
Nella nostra epoca ci sono stati Ebola, Hiv, Sars, nuovo coronavirus. Nel 165 venne la Peste Antonina: ormai identificata come vaiolo. I romani combattevano in Iraq contro i Parti, Seleucia fu saccheggiata, un legionario avrebbe forzato una cassa all’interno di un tempio di Apollo, e il dio si sarebbe vendicato innescando la prima pandemia della Storia: almeno così sostenne una narrazione che vide appunto la gente rispondere al trauma con un boom del culto di Apollo. Più presumibilmente fu un tipo di roditori africani a innescare lo spillover: i gerbilli. Morirono, a seconda delle stime tra 1,5 e 25 milioni, di persone: tra un minimo del 3 a un massimo del 25 per cento della popolazione dell’impero. Compreso l’imperatore Marco Aurelio, proprio mentre era impegnato in una campagna che conquistando la Germania avrebbe tolto di mezzo la base di future invasioni.
Da lì iniziò la parabola discendente verso il Medioevo, anche se in capo a pochi anni la dinastia nordafricana dei Severi sembrò essere riuscita a rimettere in sesto l’Impero. Nel 249 Filippo l’Arabo poté celebrare la riferita festa del Millennio. Ma già l’anno dopo si accese la Peste descritta da Cipriano: “Adesso, il fatto che il ventre dissolto nella diarrea dissipi le forze del corpo, il fatto che fin dal profondo delle ossa l’infezione divampi provocando ferite nella gola e si espanda ribollendo, il fatto che gli intestini siano scossi dal vomito continuo, il fatto che gli occhi ardano per la violenza del sangue, il fatto che i piedi oppure le membra di alcuni siano amputati a causa del contagio della malsana cancrena, il fatto che a causa di questa perdita o di questo danneggiamento di parti del corpo, mentre la debolezza si insinua dappertutto, il passo sia indebolito, l’udito sia offuscato, la vista precipiti nelle tenebre, tutto ciò è utile a testimoniare la fede”.
E’ utile anche ricostruire i sintomi, in base ai quali questa seconda pandemia è stata identificata sia con una febbre emorragica virale sia con una influenza. Durò fino al 270, e per dare l’idea dell’impatto a Alessandria ammazzò 310.000 dei 500.000 abitanti. Nel frattempo anche l’optimum climatico romano era venuto meno. “Così il sole al tramonto irradia i suoi raggi con minore splendore e minore calore”, testimoniava sempre Cipriano. Strage e peggioramento climatico crearono un clima da fine del mondo che favorì l’emergere del Cristianesimo, mentre economia e sistema monetario collassavano. Nuovi tentativi di restaurazione si rivelarono via via sempre più difficili, e nel 476 collassò l’Impero d’occidente.
Dai roditori che scorrazzavano sempre più numerosi nei depositi di grano alla base della prosperità imperiale si sviluppò la terza peste
Poi, dai roditori che scorrazzavano sempre più numerosi nei depositi di grano alla base della prosperità imperiale si sviluppò la terza pandemia: una peste vera e propria. “Su una pietra tombale palestinese, risalente alla fine del VI secolo, è scritto che un terzo dell’umanità fu spazzata via”, ricorda Harper. Dopo Giustiniano continuò a infierire periodicamente per un paio di secoli, contribuendo all’altro clima di fine del mondo in cui l’Islam nacque e i impadronì di Medio Oriente e Nord Africa. E fu definitivamente Medio Evo.
Un ritorno di peste stava appunto devastando Roma, quando Gregorio Magno nel 590 fu eletto Papa. Secondo una leggenda, un angelo e un diavolo in coppia giravano in città. L’angelo, con in mano una spada con cui indicava le porte. Il diavolo, con uno spiedo che le colpiva, e a ogni botta moriva una persona nella casa. Il Pontefice pregò, fino a quando non si vide l’angelo che sul tetto del Mausoleo di Adriano rinfoderava la spada, prima di tornare in cielo. È il segno di fine della peste che è infatti ricordato dalla statua che diede al Mausoleo l’attuale nome di Castel Sant’Angelo.
“Roma diventa quasi inevitabilmente uno specchio e una misura”, conclude Harper alla fine del libro. “Non dovremmo tuttavia considerare il caso di Roma come una lezione pratica impartitaci da una civiltà morta”. “Lungi dal rappresentare la scena finale di un mondo antico irrimediabilmente perduto, l’incontro di Roma con la natura può costituire piuttosto il primo atto di un nuovo dramma, che si sta ancora svolgendo attorno a noi. Un mondo precocemente globalizzato, dove la vendetta della natura comincia a farsi sentire, nonostante la persistente illusione di esercitare un controllo… tutto questo potrebbe suonarci non così sconosciuto. Il primato dell’ambiente naturale nel destino di questa civiltà ci avvicina ai romani, accalcati nei teatri ad applaudire gli antichi spettacoli, senza nulla sospettare del prossimo capitolo della storia, in modi che mai avremmo potuto immaginare”.