Federigo Tozzi è nato a Siena il 1º gennaio del 1883 ed è morto a Roma nel 1920

La scrittura inattuale

Matteo Marchesini

Nei libri di Federigo Tozzi non c’è appiglio per temi culturali o astratti. E’ il racconto del reale che dovremmo riscoprire

Cent’anni fa, il 21 marzo del 1920, moriva a soli trentasette anni Federigo Tozzi. E moriva di polmonite, durante un’altra pandemia influenzale, mentre intorno il mondo del Dopoguerra sembrava fuori squadra: scioperi e fascisti, echi sovietici e avventurieri in divisa, spregiudicati pescecani dell’industria e artisti ansiosi di cancellare le spregiudicatezze dell’avanguardia… Nelle storie della letteratura italiana, Tozzi viene citato accanto a Pirandello e a Svevo per caratterizzare la narrativa della crisi dopo il “naturalismo” o il “verismo”; ma spesso lo spazio e il tono della citazione lasciano intendere che a due protagonisti si sta affiancando un comprimario provinciale. Niente di più falso. L’autore di Con gli occhi chiusi fu al contrario un talento senza uguali. Luigi Baldacci, con Giacomo Debenedetti il suo interprete più acuto, ha anzi insistito in modo convincente sulla sua maggiore qualità letteraria, dove per letteratura s’intenda la stoffa “materiale” del testo. A differenza di Pirandello e Svevo, grandi costruttori di visioni del mondo che si concretizzano però in uno scriver male o addirittura in una non-scrittura, il senese Tozzi è infatti tutto nel segno insostituibile della sua pagina – in quelle annotazioni sghembe, spezzate, irrelate, e in quelle frasi simili a nervi a fior di pelle che restituiscono un’intuizione quasi epilettica della vita. La prosa tozziana è uno dei risultati più alti del nostro espressionismo, termine di solito impropriamente associato a una tradizione macaronica esaltata dagli studiosi ma fondata in genere su un abuso della perifrasi (vedere Gadda) che serve semmai a inibire l’espressione. Come parecchi moderni, Federigo Tozzi imboccò a casaccio le vie di un estremismo velleitario, passando dalla ribellione socialista alla reazione cattolica. Ma di questi furori non resta traccia nella sua arte, che non fornisce alcuna giustificazione ideologica a ciò che rappresenta.


L’autore di “Con gli occhi chiusi” fu un talento senza uguali. La prosa tozziana è uno dei risultati più alti del nostro espressionismo


 

Ha osservato Debenedetti che se “il naturalismo narra in quanto spiega, Tozzi narra in quanto non può spiegare”. Tutto gli appare come una serie di atti misteriosi, un grumo di percezioni allucinate che deformano i contorni delle cose e delle creature, disarticolando la sintassi dello sguardo e del pensiero. Tozzi è un primitivo non tanto nel senso dei prosatori medievali che gli erano cari, ma piuttosto in quello degli artisti primonovecenteschi che cercarono di cogliere gli istinti sommersi sotto la vita diurna e sociale dell’uomo. Sempre Debenedetti ha concentrato buona parte della sua analisi su un tratto tipico del primitivismo e dell’espressionismo che circolavano negli esperimenti estetici d’inizio Novecento, ovvero il processo di animalizzazione al quale lo scrittore sottopone i suoi personaggi. In Tozzi, che ha voluto intitolare un libro alle Bestie, questa metamorfosi non ha una funzione genericamente culturale. Nelle sue prove narrative il riferimento autobiografico più evidente riguarda il rapporto con un padre autoritario, un trattore e possidente davanti a cui l’erede inetto non riesce a darsi un’identità stabile né per continuità né per attendibile contrasto. Ora, secondo Baldacci farsi animali significa appunto sfuggire alla punizione di un Padre, maiuscolo o minuscolo, cioè tornare al di qua della linea oltre la quale scatterebbe la punizione e magari la castrazione. Perché questo Dio non ha mai inviato nessun redentore a sciogliere dai peccati e a dare cittadinanza ai figli. E la colpa che schiaccia questi figli finisce così per coincidere col fatto stesso di esistere. Di conseguenza, la minaccia è dappertutto. Forse si estende anche oltre i dominii degli uomini, i cui confini col regno degli esseri animati o perfino degli oggetti rimangono costantemente incerti. Tutto è male, insomma: come nel giardino pieno di vita, e in apparenza di gioia, che Leopardi descrive in una pagina famosa dello Zibaldone citata a proposito di Tozzi dal suo primo sostenitore, il critico e romanziere Giuseppe Antonio Borgese. Ma se gli alter ego dell’autore regrediscono allo stato di bestie per cercare un rifugio dalla maledizione umana, a fronteggiarli troviamo un’umanità che diventa bestiale proprio quando si vuole più umanamente efficiente. A quanto pare gli altri, enigmatici e minacciosi, esistono solo per far sentire fino in fondo alle controfigure tozziane la loro incapacità di vivere, ossia di abitare un mondo dove se non si sa ferire si merita di essere feriti. Perciò quasi ogni atto di questi altri equivale a una violenza, eppure sembra che sia il violato a dover chiedere scusa. Si tratta poi di una violenza imprevedibile, indecifrabile, che induce a sviluppare un’attitudine superstiziosa: tanto più che quando le vittime la praticano a propria volta, magari quasi per scherzo e con svogliatezza, anche le loro azioni possono produrre effetti assurdamente sproporzionati e gravi.


Pagine sorprendenti, in un’epoca ancora lontana dalle esplorazioni che la psicologia del profondo condurrà sugli istinti


 

Questi caratteri sono registrati nella maniera più nuda nei Ricordi di un impiegato (1910), una narrazione diaristica che con le sue presenze ovattate e maligne ricorda sia Kafka sia l’esistenzialismo sartriano della Nausea. Indimenticabile è la scena in cui il protagonista Leopoldo scopre che la padrona di casa, mentre lui è al lavoro in ferrovia, affitta la sua stanza a un cavadenti. Trovando il locale insanguinato, i libri e le camicie buttati per terra, l’impiegato sente montargli dentro una rabbia che però viene presto assorbita dalla voluttà masochista. Leopoldo vuole scontrarsi con qualcuno e farsi male solo per mettersi alla prova, cosa di cui chi è abbastanza sicuro di sé non ha bisogno, dato che basterebbe difendere con fermezza il proprio diritto. Le proiezioni letterarie di Federigo sognano a occhi aperti delle gesta clamorose, mentre tengono gli occhi chiusi su una realtà contro la quale vanno a sbattere a ogni passo come se fosse fatta tutta di spigoli; e quando azzardano un atto cattivo, un atto da ragazzini che torturano gli animali – esattamente come quando, con perverso piacere, sperano di subire un castigo – stanno solo tentando di stabilire un contatto con un mondo esterno sempre troppo ingannevole, torbido e confuso. L’ultimo Tozzi ricondurrà le oltranze dei Ricordi, che nella loro brutalità visionaria sfuggono all’economia di un plot, alle strutture più tradizionali del Podere e di Tre croci, due romanzi di apparenza naturalistica dove la violenza subìta dai suoi portavoce non rimanda solo alla degradazione o alla dilapidazione di sé, ma allude simbolicamente a una passione cristologica. Tra le due stagioni, però, si colloca l’opera più originale, Con gli occhi chiusi. Qui la tecnica dei blocchi giustapposti, “gratuiti”, che s’impongono per mera forza d’intuizione poetica, raggiunge il massimo rilievo.


“Ricordi di un impiegato” (1910) è una narrazione diaristica che con le sue presenze ovattate e maligne ricorda sia Kafka sia Sartre


 

Al centro di questo romanzo sostanzialmente privo di gerarchie interne, scritto nel 1913 e pubblicato nel 1919, c’è l’adolescente Pietro Rosi, che cresce tra la trattoria di Siena e il podere di Poggio a’ Meli, insieme a un padre la cui energia vitale fa tutt’uno con la sopraffazione, e a una madre la cui bontà si distingue a fatica dalla malattia. Al podere Pietro s’innamora di Ghìsola, nipote degli assalariati che lo lavorano; ma dopo una serie di avvicinamenti e allontanamenti capricciosi non riesce a concludere nulla. Pietro è davvero cieco. Non sa leggere gli atti coi quali la ragazza lo provoca, e reagisce in modo troppo timido o troppo brusco. La sua sensualità, così traboccante da dargli le vertigini, non si traduce mai in un approccio reale. Nel frattempo Ghìsola, che noi vediamo sempre attraverso il suo sguardo deformante, e di cui quindi ci è impossibile misurare il grado di spontaneità e di astuzia, si trasforma irreparabilmente. Ma solo alla fine Pietro capirà cosa è accaduto mentre lui avanzava a tentoni in mezzo a un paesaggio sinestetico di colori, superfici e rumori che lo frastornava come un incubo: la ragazza, impaziente, si è data a un uomo, ha fatto la mantenuta, e ora vive incinta in un bordello. Il libro contiene molte sequenze straordinarie, anche su temi e personaggi diversi, ma i luoghi cruciali rappresentano appunto lo stordimento e insieme la crudeltà di questa sessualità incompiuta. Ecco un passo: “Tra quegli stracci d’ogni colore, le matassine di capelli, le scatolette sfondate, c’era una bambola fatta d’un pezzo di stoffa bianca intorno a un mestolo. Pietro ebbe voglia di raccattarla, e s’alzò. Ma la vecchia, preso tempo, gettò la spazzatura fuori dell’uscio. E allora quella bambola, rimasta supina, parve a Pietro che fosse viva. E non la toccò. Ghìsola, sopraggiunta dal campo, vistala tra la spazzatura, stette zitta perché la nonna da tanto tempo le aveva detto di buttarla via, ma fece viso da piangere. Masa le gridò:

Pensi sempre a queste cose?

Pietro, per burlarla, affondò la bambola a calcagnate, nella melma; e poi ci si mise con furore, con il cuore palpitante, impaurito di vederla uscir fuori, pallido.

Ghìsola, guardandolo dall’uscio, borbottò:

Stupido!

Pietro sentì rimorso, e tentò tutti i mezzi di riconciliarsi; ma lei gli volse le spalle, mangiando un pezzo di pane trovato nella madia. Allora egli aperse un temperino che aveva in tasca e le ferì una coscia. La giovinetta, impallidita, si sforzò di contenersi. Egli, credendo di non averle fatto male, con il temperino in mano, offeso e indispettito, fece l’atto di slanciarsi un’altra volta; ma ella, allora, gli tirò un calcio, e corse in camera buttando via il pane”.

Ed ecco, poco più avanti, gli effetti che questo episodio ha avuto su Pietro: “Dopo qualche mese, trovatala per caso sola nel campo, prima s’allontanò e poi tornò indietro, arrischiandosi a chiederle:

Ti feci male parecchio?

I suoi piedi, che affondavano nella terra lavorata, gli davano un senso di sgomento. Ma ella lo guardò sorridendo.

Quando?

Quando ti ficcai, senza volere, il temperino nella carne.

Già quel sorriso, contrariandolo, gli aveva fatto perdere il filo.

Ci pensa sempre?

Egli si meravigliò di trovare in lei un sentimento che non somigliava né meno a quello supposto; e le chiese:

Te n’eri scordata, forse?

Subito dopo.

Parve a lui che volesse dire: ‘queste son cose cattive e non ci si pensa’.

Ma devi aver sofferto da vero. Se tu vuoi fare ora lo stesso a me...

Io?

Ti giuro... Tu sai che quando giuro io è la verità. Non feci male a te?

E le spiegò che avrebbe dovuto, con quel temperino, fargli la stessa ferita; ed ella, per dargli a intendere che lo prendeva sul serio, rispose:

Quando vuole...”.

 

Questo sadomasochismo ha ricordato a Baldacci il terzo capitolo delle Confessioni d’un italiano di Ippolito Nievo, nel quale la piccola Pisana, sfuggendo alla sorveglianza, va a trovare Carlino nella sua camera, gli succhia il sangue da una ferita sulla fronte, e alla fine costringe il mite ragazzotto a strapparle i capelli, anzi a “castigarla”. Sono pagine sorprendenti, in quel contesto e in un’epoca ancora lontana dalle esplorazioni che la psicologia del profondo condurrà sugli istinti e sulle loro radici infantili. Vi si potrebbe associare anche una scena del Romeo e Giulietta nel villaggio di Gottfried Keller, scritto come le Confessioni negli anni Cinquanta dell’Ottocento. Nelle prime pagine di questa novella ad alta temperatura simbolica, dopo che la bambina ha acconciato elegantemente una bambola, il bambino la prende a sassate e la spacca senza ragione, quasi per poter dire la sua di fronte a un rito che lo esclude. Ne segue una lotta, che però termina quasi subito: entrambi iniziano infatti a smembrare il giocattolo, ne staccano la testa cava, ci chiudono dentro una mosca e restano ad ascoltarla abbracciati mentre impazzisce nella sua prigione. Poi seppelliscono tutto; ma allora sono presi da un sacro orrore e scappano via, tornando a stendersi più tardi su altri campi incolti, l’uno sopra l’altra, per contarsi i denti a vicenda.


Oggi di un libro così i gestori delle nostre scuole di scrittura direbbero senza dubbio che è da cima a fondo sbagliato. Invece è un capolavoro 


Innumerevoli volte il Novecento ha indagato situazioni del genere, ma spesso un manualistico eccesso di coscienza ha impedito agli autori di mantenere l’ambiguità e la tensione, che viceversa nel Tozzi di Con gli occhi chiusi non calano mai. Se non avesse già un’ampia bibliografia critica alle spalle, oggi di un libro così i gestori delle nostre scuole di scrittura direbbero senza dubbio che è da cima a fondo sbagliato. Invece è un capolavoro. E il capolavoro sta tutto lì, nella materia satura delle sue pagine irregolari, piene di un’energia come trattenuta a stento, di un tremore quasi intollerabile. Ma per capirlo bisogna leggerlo sul serio, senza contare su appigli esterni, perché non si può usare come un pretesto per divagare su qualche tema culturale o politico in astratto. E’ una delle tante ragioni della vitalissima inattualità di Federigo Tozzi.