Le capriole di Edmondo Berselli
Dieci anni fa l'addio al giornalista e scrittore. In ogni suo articolo o pagina di libro c’era un giro di testa e quindi una visione rovesciata del mondo
L’accademia lontano dall’accademia: benvenuti al luna park Berselli, che a dieci anni dalla morte non ha spento le luci né staccato la corrente. Non è diventato una scuola e nemmeno una chiesa ma è rimasto un parco giochi con le sue giostre diverse: musica, tivù, sport e politica, e il più bel pretesto del giornalismo italiano per raccontarle. Con l’allusione, l’aneddoto e il capovolgimento. Perché Edmondo Berselli era e rimane una capriola: in ogni suo articolo o pagina di libro c’era un giro di testa e quindi una visione rovesciata del mondo, tra i pochi ad essere capace di praticare la disciplina dell’innalzamento del Basso e l’abbassamento dell’Alto, divagando e molleggiando per pagine e pagine senza mai strapparsi né annoiare.
Il metodo Berselli non contemplava la slabbratura stilistica né politica, anzi, persino nella purissima insofferenza verso l’esercizio volgare del mondo italiano, che talvolta lo circondava, non lasciava trasparire nessun cedimento né sforzo, il racconto diveniva ancora più brillante e raffinato, con un sovraccarico di ironia ri-lasciata nei dettagli. Insomma, Berselli è ancora parcheggiato nelle teste di chi scrive e legge i giornali, di chi prova a raccontare quelli come Max Pezzali come se fosse l’Europa di Fernand Braudel – senza consultare Google – o un Nibalì che pedala sulle strade di Francia fischiando Battiato, o Prodi che fa Scalo a Grado o il Real Madrid come se fosse il Frosinone e viceversa, e non basta ancora perché manca il professor Heidegger trasformato in Buttiglione questa volta senza la reversibilità. Per capire che cosa riusciva a fare Berselli bisogna pensare a un Andrea Pazienza senza tavole, solo lingua, una lingua così potente da non aver bisogno del segno ma che conserva i colori. Ogni pagina berselliana è un giro di musica e d’enciclopedia, con una lingua ricca e virtuosa che non si fa mai pedante o saccente, no, perché ammicca, cerca un appiglio anche nel più sprovveduto dei lettori, costringendolo a cedere e convertirsi, a cedere e rileggere, a cedere e divenire (in)dipendente.
I libri di Berselli sono macchine leonardesche di stupore – anche l’ultimo “Cabaret Italia” che è “solo” una raccolta con inediti – e stanno in uno spazio differente perché travalicanti pezzi unici, a cominciare da “Il più mancino dei tiri”, un campo affollato di gente dove Mariolino Corso dribbla Moro, Togliatti, Nenni, la Carrà e Sivori e un mucchio d’altri per andare a segnare ancora una volta con sottofondo di Juliette Gréco. Un saggio d’eccentricità che diveniva trasposizione di vita: perché Berselli non era differente da come raccontava a cena rispetto alle pagine di libri e giornali.
Uno straniero, arrivato al giornalismo tardi, prima s’era fatto degli anni al Mulino, a Bologna, come correttore di bozze, scalando la casa editrice e la rivista come un Gimondi le Alpi, pedalata e giudizio, editoriale e colpo di tacco, storia e gol anche quando scappa via la catena in un salto da un giornale all’altro, un Ronaldo (quello vero, O Fenômeno) d’Emilia, sempre pronto a fintare quando gli altri si aspettano il tiro e a tirare invece di metterla in mezzo. Berselli era un felino, sornione e terribile, ma sempre con una classe tra Teofilatto di Bisanzio e Alberto Arbasino, tra un Giovanni Sartori e un Manlio Scopigno con Berlusconi che diventa Comunardo Niccolai; la sua forza era nell’asincronicità culturale, nella capacità di far convergere tutto nello stesso rigo senza metterla giù pesante, alternando le lingue, facendone dei pastiche – come quando in “Venerati maestri” passò in rassegna le riunioni editoriali con affido di editoriali e conseguenti tic d’esecuzione, ma senza acrimonia, solo sberleffo ed esercizio aristocratico: da Magris a Scalfari a Ferrara a Serra a Camilleri, un drone prima dei droni che sorvola racconta e riproduce, cambiando lingua e sguardo, un grandissimo vi ho già sentito, letto, riprodotto, tutti; divertendosi moltissimo, soprattutto a prender per il culo quelli come Baricco: “specialista in corsivi, effetti bariccati e maiuscoletti”. Bastava poco a Berselli, non per distruggere ma per segnare, non per sbertucciare ma per ironizzare, non per offendere – non lo fece mai – ma per giocare. Si dovrebbe parlare non più di leggerezza calviniana – anche perché Calvino leggero non lo fu proprio mai come raccontavano i maestri di alleggerimento Arbasino e Fruttero&Lucentini, e per di più ligure – ma di leggerezza berselliana, o luna park, niente a che vedere con Walt Disney e altre americanate, piuttosto un luna park emiliano, con sottofondo di Vasco Rossi, gol di Roberto Baggio, saggi di Romano Prodi, motori di Enzo Ferrari, sgasate di ValeRossi – lui sì, Paperino, in deroga disneyana – e parole di Lucio Dalla, e ancora non basta, perché con Berselli sembra che tutto debba avere un seguito come con i bambini.