Ai confini della realtà
Guardare “Tales from the Loop” e sentire il richiamo di una fantastica serie tv. Vecchissima e in bianco e nero
E’ andata così. Cercando cose nuove abbiamo cominciato a guardare “Tales from the Loop” (su Amazon Prime). Non era ancora finito “l’invito al viaggio” di Jonathan Pryce – brevi cenni sul laboratorio sotterraneo che gli abitanti chiamano “The Loop”, e fa accadere nella cittadina “tante cose impossibili” – che abbiamo sentito fortissimo il richiamo di “Ai confini della realtà”. Non il recente remake della serie, voluto e presentato da Jordan Peele (il regista di “Get Out”) l’anno scorso sulla Cbs. Quello vecchio, anzi vecchissimo, presentato da Rod Serling a partire dal 1959 e durato fino al 1964, 156 episodi in totale. A oggi, uno dei più fantastici magazzini di intelligenza e fantasia applicate alla televisione.
L’antenato di “Black Mirror”, dicono. Solo che “Black Mirror” in cinque stagioni ha centellinato 22 episodi (i migliori nelle due stagioni iniziali, prima che l’algoritmo Netflix levasse gli artigli a Charlie Broker). La prima e l’ultima stagione di “Ai confini della realtà” hanno sfornato 36 episodi ciascuna, lunghi mezz’ora. Scesi a 18 quando la durata fu estesa a un’ora, per imposizione dello sponsor. Contro la volontà dello showrunner Rod Serling e della sua irripetibile squadra di sceneggiatori: Ray Bradbury, Charles Beaumont, Richard Matheson.
Girava voce che “Tales from the Loop” fosse adattissimo ai nostri tempi di quarantena. Non dev’essere la stessa quarantena che stiamo facendo noi. Il primo racconto – trattasi di serie antologica, ci sono fili che si annodano ma non una trama vera e propria – avanzava rarefatto verso un finale inesistente. Come fa la fantascienza quando vuole darsi un tono, forte del regista Mark Romanek (aveva adattato “Non lasciarmi” di Kazuo Ishiguro) e dello sceneggiatore Nathaniel Halpern. Ispirati da Simon Stålenhag e dai suoi disegni che fanno spuntare nella provincia americana anni Ottanta i resti già arrugginiti o in rovina di avanzatissime tecnologie. Straordinari, ma siamo sempre nell’ordine del contemplativo (c’è anche il filone paleoart, dinosauri maculati come coccinelle).
Siamo tornati dunque “Ai confini della realtà”, serie classica e in bianco e nero. La ricordavamo svelta e senza minutaggio meditativo incorporato. Semmai uno ci pensava un po’ dopo aver visto l’episodio: funzionava così quando i generi popolari non si erano ancora montati la testa. Su YouTube gli episodi si trovano abbastanza facilmente (state attenti alle durate perché un folle ne ha caricato qualcuno spezzettandolo a tre minuti per volta). Ne abbiamo visti un paio, con grande soddisfazione.
“Soli” racconta un soldato e una soldatessa, di eserciti e lingue diverse, che si incontrano in una città devastata e deserta (troveranno un modo di intendersi, lui ha una faccia che ricorda qualcuno, infatti è Charles Bronson, giovanissimo). “L’avventura di Arthur Curtis” potrebbe essere stato scritto da Charlie Kaufman di “Se mi lasci ti cancello”, prendendo sul serio l’idea del cinema come evasione dalla realtà. Sono passati 60 anni e ancora tengono testa alle ultime novità.